Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 8 novembre 2009
Voglia Iddio che vi spiazzi (che vi spiazzi anche questa volta) il nuovo album di Sting. Voglia Iddio che vi induca a un passo indietro, a un passo diverso, a un passo in meno. Un passo in meno sulle solite direttrici di marcia, che è il solo modo per poterne fare uno in più in una direzione differente. Oppure nessun passo: un momento di requie in questo girovagare senza sosta, che sembra solo del corpo e invece è anche, e soprattutto, della mente. La Natura serviva anche a questo, un tempo. A costringere gli esseri umani a fermarsi, almeno di tanto in tanto. O a rallentare. Perché la notte era senza luna e il bosco troppo fitto, per essere attraversato comunque. Perché il fiume era ingrossato e il solito guado impraticabile. Perché aveva nevicato. Nevicato così tanto che si affondava fino a mezza coscia e ogni metro andava conquistato. Ogni metro esigeva un ottimo motivo, per essere affrontato; per essere violato da un movimento, da un'azione che è quasi sempre il contrario della contemplazione e, dunque, della possibilità di comprensione. La possibilità. Non la certezza.
«L'inverno - dice Sting - è il tempo delle riflessioni, il letargo necessario per affrontare l'esplosione della primavera, per ricaricare l'immaginazione. Non succede niente nel mondo senza immaginazione». In quello che hai già fatto, se lo hai vissuto davvero e fino in fondo, la carica di immaginazione che avevi accumulato in precedenza si è esaurita. Legna che è bruciata nel camino. Che ti ha scaldato e ristorato, ma che ormai si è consumata. Sting è un uomo inquieto, che cerca da sempre il suo personale punto d'equilibrio tra l'ordine e la libertà. Sting ha bisogno di un progetto in cui credere per potervisi dedicare. Per incanalare la propria energia e vederla che dà frutto, invece di rifluire in una risacca inconcludente - e a suo modo minacciosa. Avere un termine di confronto è importante. È essenziale per verificare la propria capacità di individuare una meta e di raggiungerla. Da esploratori, o anche solo da escursionisti. Non certo da imprenditori del tempo libero che vanno a vedere se il viaggio è carino e se, perciò, lo si potrà confezionare in un qualche formato standard, per rivenderlo a chi non ha la forza, la curiosità, l'urgenza di andare a scoprirseli da solo, i luoghi che desidera confusamente nella speranza di ritrovarvi il meglio di se stesso.
Per quelli come Sting un album non è mai un impegno solenne per il futuro. Non è l'annuncio di un cambiamento stabile di traiettoria, che sostituisca alla rotta precedente un percorso alternativo e però destinato a rimanere sempre uguale a se stesso. La sua dedizione è assoluta, mentre attraversa il territorio che si è scelto, ma resta circoscritta a quella specifica esperienza. La sua discografia, Police compresi, è tutto un catalogo di trasformazioni, spesso imprevedibili.
Per rimanere agli ultimi tre anni, Sting è passato da un album come Songs from the Labyrinth al megatour della riunione, del tutto momentanea, coi Police, per approdare infine a If On a Winter's Night. Songs from the Labyrinth riprendeva il repertorio, per voce e liuto, di John Dowland, compositore vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo, con un atteggiamento quasi filologico. Nessuna concessione alla modernità, a cominciare dalla totale assenza di basso e batteria, e solo il canto a gettare un ponte tra un passato tanto remoto e un presente così confuso. Già nel 2003, del resto, si era chiamato fuori dall'andazzo generale. All'indomani della pubblicazione di Sacred Love aveva detto di sentirsi «fuori posto in questo mondo del pop che produce solo musica che a me non interessa». In occasione del nuovo album lo ha puntualmente ribadito: «Voglio permettermi il lusso di fare quel che mi piace. Non starò a inventare la nuova canzonetta per sfidare il mercato dell'iPod».
In questa prospettiva, di lucido e definitivo affrancamento dalle pantomime del pop, il tour coi Police resta un divertissement occasionale. Al di là dei vantaggi economici, si è trattato più che altro di regalarsi una seconda chance di incontro umano e di collaborazione artistica, provando a rivivere quei rapporti reciproci che a suo tempo erano stati avvelenati dalla continua tensione in cui vivevano, un po' per effetto dello scontro tra le rispettive personalità e un po' a causa della pressione dovuta al loro status di superstar, con l'obbligo implicito, e inderogabile, di replicare all'infinito la propria immagine e di azzeccare ogni volta il grande hit da classifica.
Finita la tournée, che ha raccolto un "sold out" dopo l'altro, Sting ha ripreso il filo della sua ricerca di profondità, che chiede all'originalità e all'introspezione di svelare qualcosa di nuovo sulla persona, prima ancora che sull'artista, ed è tornato nella sua splendida residenza in Toscana. Quella che è stata, come ricorda egli stesso nelle lunghe note di copertina, «la mia casa (my home) e il mio rifugio negli ultimi dieci anni». La preparazione dell'album si è svolta lì, in quella dimensione domestica che resta la migliore per chi non sia schiavo della tecnologia e non viva la musica come un prodotto industriale da pianificare a tavolino. Senza arrivare al rigore di Songs from the Labyrinth, che era forse più affascinante nel progetto che non nel risultato, l'approccio di If On a Winter's Night è nuovamente improntato al recupero di materiali preesistenti, da rigenerare in modi diversi ma all'insegna della sobrietà e della misura. Alcuni brani tradizionali, una musica di Bach accoppiata a un testo di Sting, una poesia di Stevenson con musica di Sting e dell'arpista Mary Macmaster, un adattamento da Schubert. Completamente da solo, Sting firma un unico brano, The Hounds Of Winter, mentre un altro lo ha composto insieme al chitarrista Dominic Miller. Il messaggio è limpido, per chi abbia la voglia e la capacità di coglierlo: l'ansia di novità è sciocca. Un malinteso che nasce, per lo più, dalla mancata conoscenza di quanto di bello, e talvolta di sublime, è stato fatto da chi ci ha preceduto. E la cosa strana, l'autentico paradosso, è che i soli che possano indicare l'alternativa al pop siano gli stessi che nel pop hanno trionfato. Legittimati dall'ovvio possono finalmente dedicarsi a ciò che ovvio non è.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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