domenica 15 novembre 2009

Se con gli Yes del 2000 il progressive non è più desiderio di scoperta... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 15 novembre 2009
Se si facesse l'appello oggi, nelle aule antiquate e gloriose della Progressive Rock Academy, quasi tutti i nomi dei grandi maestri di un tempo risuonerebbero invano. Ciò che hanno fatto trenta o quarant'anni fa non se lo scorda nessuno - e ai vecchi estimatori, anzi, se ne aggiungono di nuovi - ma le loro opere sono condannate a essere ammirate in assenza dei rispettivi artefici. I gruppi si sono sciolti in via definitiva, salvo rarissime eccezioni. I singoli componenti si sono dedicati ad altro. La magia si è rivelata irripetibile. Come spesso succede, nel rock, la magia era un dono della giovinezza, trascorsa la quale le formule mandate a memoria sono tornate a essere parole incapaci di un vero incantesimo. Chiunque le può ripetere. Nessuno le sa pronunciare. Nessuno le sa animare.
Gli Yes hanno suonato qui in Italia a inizio mese. Dire che sono ancora in attività, a quattro decenni dalla loro costituzione, è fuorviante. La band ha avuto un percorso costellato di mutamenti stilistici e di cambiamenti di formazione, con lunghe pause e ricorrenti andirivieni dei diversi membri. L'ultimo album, il confortante Magnification che riannodava i fili della fase che culminò in Yessongs, nell'ormai lontanissimo 1973, risale al 2001. Gli Yes di oggi pescano in un repertorio tanto vasto e diversificato da essere contraddittorio: il bassista Chris Squire, l'unico che è rimasto sempre al suo posto, parla di uno «spettacolo molto vario» e sembra assai soddisfatto di questa ampiezza stilistica; ma per chi ami davvero il progressive, e non sia di quei fan che dai propri beniamini accettano tutto e il contrario di tutto, c'è da chiedersi cosa c'entri Owner of a Lonely Heart, il loro superhit degli anni Ottanta, con le atmosfere di Fragile o di Close to the Edge. La domanda che bisognerebbe porsi (e non vale solo per gli Yes, ovviamente) è se sia giusto oppure no portare in scena, nella stessa serata, aspetti così distanti della propria discografia. Distanti, ripetiamolo, fino alla contraddizione. Rivolgersi a pubblici diversi è del tutto legittimo; ignorare tali differenze, riunendo nella medesima rappresentazione brani di natura così diseguale, è artisticamente incongruo. Vedi, per restare nell'ambito di ciò che è nato nel segno del progressive e poi si è stemperato nel mero intrattenimento, quello che è accaduto ai Genesis: formalmente la stessa band, dai tempi di Foxtrot e Nursery Crime a quelli di Duke e di Abacab; di fatto due progetti lontani anni luce, in corrispondenza dell'abissale disparità che separa Peter Gabriel da Phil Collins.
Non è una fisima da puristi. È l'esigenza di ristabilire una prospettiva ben definita tra forme musicali che corrispondono ad aspettative intimamente eterogenee. È il desiderio (l'ambizione?) di contrapporsi all'appiattimento del gusto e alla crescente incapacità di distinguere tra ciò che è solo gradevole e ciò che è talmente profondo da rimescolare le certezze più o meno posticce dell'Io, fino a rendere possibile un'evoluzione interiore. Il progressive non è una categoria del pop, nel senso del soddisfacimento industriale di un bisogno di emotività a buon mercato. Il progressive è una branca importante del rock. Del rock: non del rock'n'roll.
Il rock'n'roll nasce breve, stringato, scoppiettante. Due minuti e mezzo, o giù di là, e la prima manche è finita. Corri, te la spassi, ti fermi un attimo, ricominci daccapo. Puoi passarci anche due ore di seguito, ma saranno comunque due ore di singoli scatti. Sempre veloci. Spesso brucianti. Il percorso è quello che vedi al primo sguardo. Un lunghissimo rettilineo. Al massimo un circuito semplificato con le curve che girano tutte dalla stessa parte. Un "catino" tipo Indianapolis. La differenza la fa il motore, più che il pilota. Il pilota basta che ci dia dentro: a manetta dall'inizio alla fine. Capiamoci bene, boys. Le curve non sono mica un problema. Le curve sono solo rettilinei un po' storti. Non è che dovete pennellare una traiettoria. Dovete smartellare l'asfalto come se fosse un grumo di ferro da spianare. La pista lo capisce, se siete tosti davvero. La pista vi ama, se vi meritate il suo amore.
Il progressive rock è agli antipodi. È un disegno intricato in cui lo sfondo è altrettanto importante, è altrettanto determinante, delle figure in primo piano. L'opposto della pop-art di Andy Warhol, che ricicla l'ordinario e lo innalza a simbolo solo perché lo ingigantisce e lo isola dal contesto che lo ha generato, che lo ha prodotto al solo scopo di venderlo. Lattine Campbell. Marylin Monroe. Non importa che siano cibi da quattro soldi o divi irraggiungibili. La funzione è identica: il messaggio è che la risposta è al di fuori di te. Il messaggio (il raggiro) è che tutto quanto è a portata di mano. Ce li hai cinquanta cent per una scatoletta, vero? Ce li hai cinquanta cent per il biglietto del cinema? E cinque dollari per il poster?
Il progressive rock ti dice che è ora di prenderti più sul serio. E di concederti il tempo che ci vuole. E di imparare a leggere queste mappe che assomigliano a un dipinto, invece che a un foglietto di istruzioni costellato di freccette colorate e di disegnini esplicativi a prova di idiota. Il punto di arrivo non è il lunapark, il drive-in, il fast-food ai bordi dell'autostrada. Il punto d'arrivo è racchiuso - è custodito - in un luogo nel quale si può arrivare solo a piedi. O tutt'al più a cavallo, se si ha un destriero fidato e intelligente come l'Ombromanto di Gandalf; oppure, quanto meno, sincero e generoso come Bill, il pony di Samvise Gamgee.
Il rock'n'roll è la festa popolare che presuppone una massa. Il progressive è il viaggio individuale che la prima volta si deve fare in perfetta solitudine, e che solo in un secondo tempo si può compiere nuovamente insieme ad altri. Altri che siano a loro volta consci dei territori che stanno attraversando, e che siano capaci di vedere al di là della visione d'insieme. E di sfuggire alla schiavitù della prima impressione. Il rock'n'roll sazia il bisogno di conferme: ci va bene quello che siamo, e se non siete d'accordo fottetevi. Il progressive alimenta il desiderio di scoperte: crediamo, speriamo, di poter diventare migliori, e se non siete d'accordo ci dispiace per voi - anche se non ci fermeremo a spiegarvi il perché.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

Nessun commento: