Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 1 novembre 2009
L’introversione crea difficoltà all’esterno, ma offre smisurate opportunità all’interno. Opportunità non tutte piacevoli, bisogna riconoscere. Opportunità preziose, bisognerebbe capire. Gli altri suonano alla porta d’ingresso e tu sei giù in cantina a provare a mettere un po’ d’ordine, e a perderti in fantasticherie dietro una vecchia rivista o un aggeggio che non usavi più da un pezzo e che nemmeno ti ricordavi se l’avessi buttato via o accantonato chissà dove: troppo lontano per aprire subito, o per aver voglia di precipitarti su per le scale e scambiare quattro chiacchiere su quello di cui parlano tutti, ma che a te (nessuna presunzione, fratelli) non interessa proprio per niente. Gli altri si stancano presto di bussare senza avere risposta. Tu ti stanchi della loro fretta. Chiudi la porta della cantina e alzi la musica dello stereo. E solo ogni tanto, in una pausa acustica o nell’intervallo tra un brano e l’altro, tendi l’orecchio chiedendoti se quel suono che ti sembra di aver sentito, là sopra, è davvero il trillo del campanello. Del tuo campanello. Della tua porta d’ingresso. Della tua casa.I Rem (gli Ar-I-Em, se preferite lo spelling) sono esperti di cantine, grazie al chitarrista Peter Buck e al cantante Michael Stipe. È una specializzazione che si consegue da ragazzi – a volte già da bambini – e che rimane per sempre. Per sempre: anche quando finisce a sua volta nel dimenticatoio e non la si pratica più per anni e anni e anni. Ma i Rem sono anche artisti. In attività da quasi trent’anni. Apprezzati fin dal primo album, Murmur, che venne dichiarato disco dell’anno da Rolling Stone. In cima alle classifiche all’inizio degli anni Novanta con Out of Time. In fase calante nello scorcio iniziale del nuovo millennio, fino a quell’Around the Sun del 2004 che è piaciuto così poco alla critica e che, pur avendo superato i due milioni di copie in tutto il mondo e raggiunto il primo posto nel Regno Unito, è andato piuttosto male negli USA, mancando il consueto traguardo del disco d’oro.
Così, insoddisfatti non solo delle vendite ma dell’album in quanto tale, i Rem si sono guardati in faccia e hanno deciso che nel loro approccio c’era qualcosa che doveva essere rivisto. La sicurezza era diventata presunzione. Le capacità erano diventate automatismi. Quello che avevano inciso ultimamente poteva anche non essere così disastroso, ma il punto non è non avere difetti che balzino all’occhio. Il punto è avere pregi che si conquistino il secondo sguardo. E poi il terzo. E così via fino a trasformare la curiosità iniziale, o l’incontro per puro caso, in un desiderio di vicinanza e di comprensione. Le canzoni come conferma, o come rivelazione. Le canzoni come esperienze di vita. Le canzoni come compagne di strada. E poi come ricordi del viaggio.
In vista nel nuovo album, quello che sarebbe uscito lo scorso anno e che si sarebbe intitolato Accelerate, i Rem hanno fatto una cosa insolita. Hanno rovesciato la normale successione cronologica tra il lavoro in studio e quello in concerto. Hanno messo giù un certo numero di brani e sono andati a provarli dal vivo, per scoprire se al pubblico piaceva ascoltarli – e se a loro piaceva eseguirli. In aggiunta, perché il materiale non era sufficiente ad attraversare un’intera serata, molti vecchi pezzi del passato, evitando i gettonatissimi Losing My Religion e It’s the End of the World As We Know It e pescando per lo più nella produzione degli anni Ottanta. Come luogo hanno scelto l’Irlanda, e più precisamente Dublino, e ancora più precisamente l’Olympia Theatre. Come periodo una manciata di giorni (di sere...) fra il 30 giugno e il 5 luglio 2007. Come pubblico i fan del gruppo, disposti a pagare il biglietto anche se, come si sapeva ancora prima di entrare e come ribadiva la grande scritta luminosa alle spalle dei musicisti, “THIS IS NOT A SHOW”. Niente spettacolo, nel senso abituale di una messinscena accuratamente studiata e finalizzata a trasportare gli spettatori in una dimensione fittizia in cui tutto, a differenza della vita reale, si snoda col massimo del fascino e col minimo degli imprevisti. Ed essendo ineccepibile nella forma lascia credere, non sempre in buona fede, di esserlo altrettanto nella sostanza.
Al posto dello show, ecco questa situazione strana, e affascinante, e forse irripetibile, a metà strada tra il concerto e le prove. Michael Stipe che canta le parole che ha scritto ma che non esita a correggerle lì per lì. Le canzoni che sono intervallate da chiacchiere e da scherzi. Il pubblico che interloquisce volentieri, riguadagnando un po’ di quella spontaneità cordiale e rilassata che è stata messa al guinzaglio dalla mitizzazione più o meno posticcia delle star musicali. Ciò che ingigantisce il divo rimpicciolisce il pubblico. Se la rappresentazione diventa liturgia i ruoli si cristallizzano. Canzone, applauso, canzone, applauso, bye bye. Un pugno di protagonisti, sul palco, e una miriade di comparse, in platea.
Poco più di due anni dopo, quei concerti del 2007 sono diventati un nuovo album. Trentanove canzoni distribuite in due cd, con l’eventuale integrazione, per chi la vuole e non si lascia frenare dal modesto sovrapprezzo, di un dvd che dura quasi un’ora e che, prevalentemente in bianco e nero, restituisce senza fronzoli quel clima da club per intenditori in cui l’errore è un dettaglio e i soli peccati mortali sono la cialtroneria e la freddezza. Il risultato è ottimo. Non tanto per la qualità intrinseca dei brani, che pure si fanno apprezzare, ma per la vitalità con cui vengono (ri)proposti. Oltre che per se stessi, come ascoltatori, viene da rallegrarsi per loro, come persone. Gli artisti non devono solo accendere il fuoco per gli altri, e controllare che non si spenga rifornendolo puntualmente di combustibile e manovrando con sicurezza i loro mantici; gli artisti devono avere voglia, devono avere bisogno, di scaldarsi a loro volta, ed essere contenti di osservare la fiamma che guizza, e incantarsi a guardare qualche favilla che schizza via e che svanisce nel buio.
Giù in cantina si sta bene, ma quassù si può stare assai meglio. Dipende da chi è venuto a trovarci. Dipende da quanta voglia abbiamo noi di starci insieme e di raccontarci davvero, partendo dalle chiacchiere del giorno e arrivando chissà dove.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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