Dal Secolo d'Italia di giovedì 26 novembre 2009
Si chiamava Mariano Bacioterracino. Il nome non dice granché e l’imperfetto si limita a suggerire che non è più su questa terra. Un aiutino: è l’uomo – non proprio uno stinco di santo – che viene assassinato nel video recentemente diffuso dalla procura della Repubblica di Napoli. L’esecuzione, a opera di un killer della camorra, risale allo scorso 11 maggio. Location: davanti a un bar in cui non mancano avventori del quartiere Sanità. Pochi attimi e, colpito da proiettili sparati a bruciapelo, cade riverso sul marciapiede. Stupisce la reazione del “pubblico”. La donna che ha acquistato il biglietto del gratta e vinci si sposta appena per far passare l’omicida e continua a grattare. Poi si allontana senza voltarsi. Un uomo con una bambina in braccio attraversa “la scena del crimine” come se nulla fosse accaduto. «Tranquilla indifferenza», la definisce lo scrittore Roberto Saviano. Rassegnazione? Certo, in luoghi dove la convivenza con la violenza è quotidiana – direte voi – è quanto meno giustificabile reagire così. Il problema, però, è che la rimozione della morte permea tutta la nostra società. La morte disturba. Tanto siamo assuefatti ai decessi “per fiction”, quanto evitiamo con scrupolosa determinazione quella reale. Paradossalmente, ne decretiamo più o meno consapevolmente il trionfo nei palinsesti del piccolo e grande schermo, ma coltiviamo la velleità di cambiare canale quando ce la troviamo di fronte. Rifiutiamo la dimensione privata del dolore rifugiandoci nella ben più rassicurante indignazione di massa. Come davanti alle foto del giovane Stefano Cucchi col viso trasfigurato dal pestaggio.
Anche per questo arriva come una boccata d’aria pura – sia pure gelata – un’opera provocatoria come Tanatoparty (Meridiano Zero, pp. 123 € 10), romanzo d’esordio di Laura Liberale, indologa piemontese, classe ’69. Un libro che, non a caso, nasce proprio dall’elaborazione di un lutto – il padre dell’autrice, scomparso nel 2004 – e ci mostra l’assurdità di una società che rifiuta l’idea della morte naturale e sviluppa tecniche conservative sempre più aggressive, inseguendo un’irreale aspirazione collettiva: farsi congelare in un’apparenza di eterna giovinezza.
«Scrivere della morte – ci spiega invece la Liberale – significa riappropriarsi di un pezzo di vita». E lei lo fa con questa favola nera impreziosita da un linguaggio crudo quanto colto, misurato fino all’essenziale, poetico e musicale. Del resto, prima ancora di farsi narratrice, la Liberale è poetessa – ha pubblicato una raccolta poetica con le eleganti edizioni d’If di Napoli – e musicista: suona il basso in una band (garage rock, per lo più) di scrittori a Padova, sua città d’adozione. «Ho una soundtrack per ogni cosa scritta – racconta – e per Tanatoparty sono stati Bauhaus, Killing Joke e Joy Division». E infatti sono molte le suggestioni post-punk e darkeggianti presenti tra le righe del romanzo. Dal pop ai classici. Dal gothic rock dei Cure di Robert Smith agli «adorati» Howard Phillips Lovecraft e Edgar Allan Poe per arrivare al Libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), le cui frasi, tratte dall’edizione Utet ’72 curata dall’orientalista Giuseppe Tucci, incorniciano – letteralmente – ogni pagina di Tanatoparty.
Titolo che è già un programma. Più esattamente: un j’accuse. Nei confronti di chi vorrebbe fare del caro estinto tout court un cliente da spennare, del tentacolare business legato alle onoranze funebri alimentato vieppiù dalla società dell’immagine, che non si arrende neanche di fronte all’inevitabile. Spieghiamoci: la tanatoprassi, fulcro del romanzo, consiste nel trattamento post-mortem del cadavere a fini igienico-conservativi. Con buoni risultati, almeno nel breve periodo. Niente più corpi deturpati da incidenti o segnati da malattie, per intenderci. Niente cattivi odori che possano rendere la veglia funebre sgradevole. Mai più obitori freddi e inospitali, ma strutture confortevoli e personale specializzato. I familiari potranno vedere il morto – sostengono i rappresentanti di questa professione emergente anche nel nostro paese – esattamente com’era da vivo. Magari seduto, in posizioni all’apparenza normali, come sempre più spesso capita ai defunti in particolar modo americani.
«Estetica dell’aggiustabile», la definisce ironicamente la Liberale nel romanzo. Che in un futuro neanche tanto lontano potrebbe risolvere tanti problemi. Tanto da non rendere più necessario rinviare una vacanza se un parente improvvisamente venisse meno. Grazie alla possibilità di rinviarne sine die il processo di decomposizione, potrà tranquillamente diventare acquiescente compagno di viaggio in qualsiasi tipo di ambiente. Un po’ come in Week end con il morto (’89), pellicola statunitense diretta da Ted Kotcheff seguita dal sequel del ’93. O, meglio ancora, come ne La morte ti fa bella. In quest’ultima esilarante commedia nera di Robert Zemeckis girata nel ’92, Meryl Streep e Goldie Hawn, dopo aver bevuto un elisir, diventeranno immortali e sarà compito di Bruce Willis, nel ruolo del chirurgo / compagno conteso dalle due agguerrite rivali, farsi “tanatoprattore ante litteram” e cercare di combattere la decomposizione delle salme… viventi.
Ed è proprio questa la “denuncia” della Liberale: la morte come tabù, il rifiuto ostinato dell’invecchiamento, l’emulazione sempre più diffusa di personaggi dello spettacolo che fanno ricorso alla chirurgia estetica pur di coltivare l’illusione di una giovinezza irrimediabilmente sfiorita che nessuna modifica artificiale potrà mai restituire. Con risultati spesso caricaturali e tutt’altro che dignitosi. È contro «questa terrificante sfilza di corpi-artefatto, adulterati e inautentici», identità, che – per citare le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman – «diviene una collezione di maschere indossate una dopo l’altra», la Liberale, attraverso Lucilla Pezzi, la protagonista del romanzo, riafferma «un’identità fatta di pelle e non adottata come veste».
Anche per questo arriva come una boccata d’aria pura – sia pure gelata – un’opera provocatoria come Tanatoparty (Meridiano Zero, pp. 123 € 10), romanzo d’esordio di Laura Liberale, indologa piemontese, classe ’69. Un libro che, non a caso, nasce proprio dall’elaborazione di un lutto – il padre dell’autrice, scomparso nel 2004 – e ci mostra l’assurdità di una società che rifiuta l’idea della morte naturale e sviluppa tecniche conservative sempre più aggressive, inseguendo un’irreale aspirazione collettiva: farsi congelare in un’apparenza di eterna giovinezza.
«Scrivere della morte – ci spiega invece la Liberale – significa riappropriarsi di un pezzo di vita». E lei lo fa con questa favola nera impreziosita da un linguaggio crudo quanto colto, misurato fino all’essenziale, poetico e musicale. Del resto, prima ancora di farsi narratrice, la Liberale è poetessa – ha pubblicato una raccolta poetica con le eleganti edizioni d’If di Napoli – e musicista: suona il basso in una band (garage rock, per lo più) di scrittori a Padova, sua città d’adozione. «Ho una soundtrack per ogni cosa scritta – racconta – e per Tanatoparty sono stati Bauhaus, Killing Joke e Joy Division». E infatti sono molte le suggestioni post-punk e darkeggianti presenti tra le righe del romanzo. Dal pop ai classici. Dal gothic rock dei Cure di Robert Smith agli «adorati» Howard Phillips Lovecraft e Edgar Allan Poe per arrivare al Libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), le cui frasi, tratte dall’edizione Utet ’72 curata dall’orientalista Giuseppe Tucci, incorniciano – letteralmente – ogni pagina di Tanatoparty.
Titolo che è già un programma. Più esattamente: un j’accuse. Nei confronti di chi vorrebbe fare del caro estinto tout court un cliente da spennare, del tentacolare business legato alle onoranze funebri alimentato vieppiù dalla società dell’immagine, che non si arrende neanche di fronte all’inevitabile. Spieghiamoci: la tanatoprassi, fulcro del romanzo, consiste nel trattamento post-mortem del cadavere a fini igienico-conservativi. Con buoni risultati, almeno nel breve periodo. Niente più corpi deturpati da incidenti o segnati da malattie, per intenderci. Niente cattivi odori che possano rendere la veglia funebre sgradevole. Mai più obitori freddi e inospitali, ma strutture confortevoli e personale specializzato. I familiari potranno vedere il morto – sostengono i rappresentanti di questa professione emergente anche nel nostro paese – esattamente com’era da vivo. Magari seduto, in posizioni all’apparenza normali, come sempre più spesso capita ai defunti in particolar modo americani.
«Estetica dell’aggiustabile», la definisce ironicamente la Liberale nel romanzo. Che in un futuro neanche tanto lontano potrebbe risolvere tanti problemi. Tanto da non rendere più necessario rinviare una vacanza se un parente improvvisamente venisse meno. Grazie alla possibilità di rinviarne sine die il processo di decomposizione, potrà tranquillamente diventare acquiescente compagno di viaggio in qualsiasi tipo di ambiente. Un po’ come in Week end con il morto (’89), pellicola statunitense diretta da Ted Kotcheff seguita dal sequel del ’93. O, meglio ancora, come ne La morte ti fa bella. In quest’ultima esilarante commedia nera di Robert Zemeckis girata nel ’92, Meryl Streep e Goldie Hawn, dopo aver bevuto un elisir, diventeranno immortali e sarà compito di Bruce Willis, nel ruolo del chirurgo / compagno conteso dalle due agguerrite rivali, farsi “tanatoprattore ante litteram” e cercare di combattere la decomposizione delle salme… viventi.
Ed è proprio questa la “denuncia” della Liberale: la morte come tabù, il rifiuto ostinato dell’invecchiamento, l’emulazione sempre più diffusa di personaggi dello spettacolo che fanno ricorso alla chirurgia estetica pur di coltivare l’illusione di una giovinezza irrimediabilmente sfiorita che nessuna modifica artificiale potrà mai restituire. Con risultati spesso caricaturali e tutt’altro che dignitosi. È contro «questa terrificante sfilza di corpi-artefatto, adulterati e inautentici», identità, che – per citare le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman – «diviene una collezione di maschere indossate una dopo l’altra», la Liberale, attraverso Lucilla Pezzi, la protagonista del romanzo, riafferma «un’identità fatta di pelle e non adottata come veste».
Scrive l'autrice: «Per Lucilla – scrive l’autrice – il corpo doveva essere un grido ininterrotto contro l’ideologia». 65 anni, artista dissacrante e anticonformista, Lucilla, quando apprende di essere malata di cancro, decide di fare della propria morte una performance, l’ultima. Diventerà essa stessa un’opera d’arte proponendosi come oggetto. Le sue membra inanimate verranno esposte quale «simbolo del suo fare poesia: uno strapparsi a morsi che, a carne viva, ti fa arrivare al cuore inesorabile della cose». È lei e non altri a dettare tempi, modi e luoghi della sua uscita di scena, rivelando così la posizione dell’autrice in tema di testamento biologico: «Pur nel riconoscimento dell’assoluto mistero della vita – dice la scrittrice – sono fermamente convinta che le scelte individuali vadano rispettate senza condizioni». E Lucilla stabilisce di essere plastificata. Riferimento esplicito della Liberale alle opere di Gunther von Hagens, anatomopatologo tedesco che a partire dagli anni ’70 ha inventato e perfezionato un’innovativa tecnica di conservazione e da allora porta in giro «non per perversione o spettacolarizzazione ma a meri fini didattico-divulgativi» la sua mostra itinerante di cadaveri provenienti da donazioni volontarie. La sua salma, così trattata, sarà esposta al pubblico.
Il luogo prescelto per l’atrocity exhibition è Tanexpo, l’esposizione internazionale d’arte funeraria e cimiteriale. Fiera “della morte” che esiste davvero (nata nel ’92 a Bologna, 20mila metri quadrati per 16mila espositori provenienti da cinquanta paesi del mondo, la prossima edizione si terrà nella città emiliana il 26 marzo 2010), i cui aspetti grotteschi vengono sapientemente estremizzati nel romanzo. Così come “estrema” sarà la protesta degli attivisti del P.G.F. (Pro Gea, Fronte per la Difesa della Terra) – fautori di funerali naturali «ecosostenibili». Perché, come è scritto nell’epigrafe/citazione di Philip K. Dick che apre il romanzo, «seppellire la gente è da barbari». Nel mirino degli ecoterroristi c’è «la lobby funeraria nazionale, vera e propria industria della morte», rea del disboscamento delle foreste, del depauperamento delle risorse di zinco e di tutta una serie di immissioni nell’ambiente di sostanze nocive derivanti dai trattamenti di tanatoprassi e necroestetica.
La vicenda intreccerà le vite di Mina, la sorella minore di Lucilla, di Sergio, l’amore giovanile, della tanatoprattrice Clotilde e del necrofilo Leo. Tutti invitati a partecipare all’ultima performance di Lucilla, della quale resta il cadavere «congelato in un eterno presente per incarnare l’angoscia della post-modernità: l’orrore del cambiamento». Costringendo gli spettatori della morte fiction a confrontarsi con la morte vera, anche se spettacolorizzata in un’azione artistica: «Clotilde punta il telecomando verso Lucilla e preme. L’apparente rigidità del corpo si scioglie all’improvviso. Come azionato da una molla interna, con uno scatto precluso ad arti vivi, il cadavere si solleva».
Il luogo prescelto per l’atrocity exhibition è Tanexpo, l’esposizione internazionale d’arte funeraria e cimiteriale. Fiera “della morte” che esiste davvero (nata nel ’92 a Bologna, 20mila metri quadrati per 16mila espositori provenienti da cinquanta paesi del mondo, la prossima edizione si terrà nella città emiliana il 26 marzo 2010), i cui aspetti grotteschi vengono sapientemente estremizzati nel romanzo. Così come “estrema” sarà la protesta degli attivisti del P.G.F. (Pro Gea, Fronte per la Difesa della Terra) – fautori di funerali naturali «ecosostenibili». Perché, come è scritto nell’epigrafe/citazione di Philip K. Dick che apre il romanzo, «seppellire la gente è da barbari». Nel mirino degli ecoterroristi c’è «la lobby funeraria nazionale, vera e propria industria della morte», rea del disboscamento delle foreste, del depauperamento delle risorse di zinco e di tutta una serie di immissioni nell’ambiente di sostanze nocive derivanti dai trattamenti di tanatoprassi e necroestetica.
La vicenda intreccerà le vite di Mina, la sorella minore di Lucilla, di Sergio, l’amore giovanile, della tanatoprattrice Clotilde e del necrofilo Leo. Tutti invitati a partecipare all’ultima performance di Lucilla, della quale resta il cadavere «congelato in un eterno presente per incarnare l’angoscia della post-modernità: l’orrore del cambiamento». Costringendo gli spettatori della morte fiction a confrontarsi con la morte vera, anche se spettacolorizzata in un’azione artistica: «Clotilde punta il telecomando verso Lucilla e preme. L’apparente rigidità del corpo si scioglie all’improvviso. Come azionato da una molla interna, con uno scatto precluso ad arti vivi, il cadavere si solleva».
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