martedì 1 dicembre 2009

Giorgio Soavi, a un anno dalla morte di colui che diede il nome al "Giornale"

Dal Secolo d'Italia di martedì 1 dicembre 2009
Giorgio Soavi se n’è andato, all’età di 85 anni, il 1° dicembre dello scorso anno. Potremmo dire che è sceso dal palcoscenico. Ché l’intellettuale pavese, dandy raffinato e affabulatore dal talento versatile, è stato uno dei veri (e ultimi) “personaggi” del nostro Novecento. Il Fitzgerald italiano, ebbero a definirlo. Ma lui rigettò cortesemente il pur lusinghiero paragone con l’autore de Il Grande Gabsy: «Non mi ci ritrovo. Resto un non addetto ai lavori, uno scrittore che scrive di pittori». Una passione, quella per le arti figurative, a cui era stato iniziato dall’amico Dino Buzzati e che aveva declinato in modo assolutamente originale: contaminando una critica competente con aneddoti e divagazioni d’ogni genere, facendo dei “medaglioni” che via via dedicava agli artisti – che immancabilmente erano o diventavano suoi amici – delle perle di narrativa.
Ma non solo. Curioso rabdomante dei fenomeni culturali, si è misurato in mille ruoli, lasciando sempre un segno distintivo, il proprio. C’è la sua “impronta” creativa dietro l’ambizioso progetto di Adriano Olivetti di collocare l’impresa di Ivrea su orizzonti metaculturali. Da art director e principale artefice delle edizioni di Comunità, radunò grafici e illustratori di grandi capacità seguendo il proprio gusto e realizzando, tra l’altro, le strenne e le agende Olivetti, vere e proprie collezioni di opere d’arte che hanno rivoluzionato il design aziendale. Soavi rimase talmente conquistato dalla personalità del suocero (ne sposò la figlia Lidia) ­– «il visionario per eccellenza, lo spirito nuovo e inclassificabile per il mondo italiano, abitato da gente furba, svelta, quella dei pasticci di cui Adriano era fatalmente fuori squadra» – da dedicargli un romanzo, Il Conte (Longanesi, ’83), e un riuscito ritratto biografico, Olivetti, una sorpresa italiana (Rizzoli, 2001).
E ancora: poeta ironico e sensuale con tre raccolte all’attivo. Giornalista: dalla gavetta come giovanissimo correttore di bozze al Mondo di Firenze (quello diretto da Alessandro Bonsanti) a grande firma del Giornale di Montanelli, testata di cui lui stesso suggerì il nome. Romanziere che, più che raccontare, si raccontava. Suo quel bellissimo (e autobiografico) Un banco di nebbia. I turbamenti di un “piccolo italiano” (Mondadori ’55, ristampato successivamente da Longanesi, Rizzoli e, nel ’99, da Einaudi) che Giampaolo Pansa ha definito «fondamentale per capire i ragazzi di Salò», sottolineandone l’importanza tra le fonti d’ispirazione de Il sangue dei vinti, il fortunato libro dello scrittore piemontese dal quale nel 2008 è stato tratto il film diretto da Michele Soavi (figlio di Giorgio), da pochi giorni disponibile in dvd.
Nel romanzo – a cui non fu assegnato il premio Hemingway perché, dice la leggenda, ritenuto “fascista” – Soavi racconta con schiettezza la propria esperienza di repubblichino ma soprattutto di ventenne di provincia nato un anno dopo la marcia su Roma: «un’età in cui ciascuno di noi crede che il suo personaggio sia identico a quello di una situazione letteraria e si preoccupa di non tradirlo troppo».
«La storia di chi – così l’autore definì il libro – vivendo in modo inconsapevole e felice può trovarsi da una parte sbagliata o colpevole». Quando il 25 aprile, poco prima delle 23, la radio diede la notizia delle dimissioni di Mussolini, in pochi istanti avvertì lo sbriciolamento di un mondo che sino a quel momento credeva solido. L’unico possibile. «Io non capivo e la notizia mi fece paura e mi dispiacque – ha scritto – in quanto ero nato con quel che Mussolini aveva creato. Credevo proprio di essere uno dei suoi giovani migliori e mi venne da piangere perché sentii un terremoto dentro di me». A questo romanzo ne seguiranno diversi altri, in cui toccherà temi “impegnativi” – come ne Gli amici malati di nervi (Mondadori, ’57), impietoso ritratto della generazione postbellica degli intellettuali – e “lievi”: dall’insolita collaborazione con Vittorio Gassman per il romanzo epistolare a quattro mani Lettere d’amore sulla bellezza (Longanesi ’96) sino alle più recenti prove “erotiche” con Goccioline, Femminile e Nella tua carnagione (Es ’99, 2002 e 2005).
È la vita stessa di Soavi, del resto, ad avere i contorni del feutillon d’avventura. Lasciò la milizia e Gorizia quando mancavano pochi mesi alla liberazione. Con una licenza illimitata che s’era scritto da solo, rendendosi ufficialmente disertore. Vagò di città in città arrivando a Roma alla fine del ’45, a bordo di un autocarro americano. La conoscenza dell’inglese – acquisita grazie alla lettura di Americana, l’antologia di scrittori “yankee” curata da Elio Vittorini, imparata a memoria insieme con i film che ne avevano infiammato il sogno a stelle e strisce – lo aiutò a trovare lavoro come cantante in un uno storico caffè romano. E proprio mentre va a prendervi servizio, in corso Vittorio Veneto si imbatterà in grandi manifesti con la faccia di un suo “vecchio” amico accanto a quella della soubrette Marisa Maresca, allora famosissima come «la bomba del sesso». La rivista di chiamava Simpatia e portava la firma di Marcello Marchesi. E con l’amico ritrovato furono «mesi di gran divertimenti. Ogni sera libera dagli impegni di lavoro, ero a teatro con il mio amico Walter». Sì, proprio Walter Chiari, come lui repubblichino in fuga. Si erano conosciuti all’ospedale militare di Pontremoli dove entrambi si erano finti malati. «Una notte, Walter scomparve. Ogni ricerca nelle corsie e nei dintorni fu inutile».
Disertore. Poco dopo lo divenne anche Soavi. Definizione che gli rimase appiccicata a lungo. Indro Montanelli, soprattutto, non perdeva occasione per rinfacciarglielo: «Non ci si può fidare dei disertori». Un’amicizia, la loro, che ebbe inizio alla fine degli anni Cinquanta in modo tutt’altro che idilliaco. Il primo incontro, a dir poco burrascoso, avvenne da Bagutta, la celebre trattoria milanese in cui si ritrovavano scrittori e giornalisti. Montanelli salutò tutti ma, quando tese la mano a Soavi non gliela strinse. «Non potevo mica dare la mano a un campione del vecchio fascismo!», osservò lo scrittore pavese, che pure aveva combattuto sul fronte di Anzio. «Tu hai fatto la guerra nella “Repubblica” – gli chiese tempo dopo Montanelli – e sei ebreo. Ma allora perché sei diventato repubblichino?». «Mia madre di nascosto da mio padre, ebreo, mi aveva fatto battezzare – gli rispose – e così, scampato alle leggi razziali, potei terminare le scuole. Ma una volta chiamato alle armi, finii nella “Repubblica”. Ecco tutto».
Ecco tutto. Eppure divennero inseparabili. Nonostante l’evidente differenza di stile: tanto sanguigno e irruento era Montanelli, quanto distaccato, sino ad apparire svagato, era Soavi. «Viviamo tutti in un’era nevrotica – sosteneva – in cui tutto è stato malmenato dalle tecnologie. Dunque, non resta che riscoprire la lentezza». Malgrado ciò la loro collaborazione resistette nel tempo con reciproca soddisfazione. Poco dopo la morte del grande vecchio del giornalismo italiano, Soavi gli dedicò un libro affettuoso – Indro (Longanesi 2002) – il cui sottotitolo, non a caso, è: Due complici che si sono divertiti a vivere e a scrivere. Le loro finte liti, infatti, come testimonia nella prefazione Mario Cervi, altro non erano che un minuetto, a colpi di reciproche insolenze e scherzi spesso feroci, recitato a uso e consumo degli amici, in cui uno faceva da spalla all’altro. Montanelli, sarcastico, sosteneva di frequentare Soavi perché, morto Buzzati, «era rimasto vacante il posto del cretino». L’altro rispondeva scrivendo lettere di fuoco in cui definiva Montanelli un analfabeta in grado di esprimersi esclusivamente in un «insopportabile periferico toscano». Una delle lettere, peraltro, portava la firma di Giuseppina Soavi, madre di Giorgio, che protestava perché il figlio era stato definito «aspide», cioè vipera, dal direttore. Con il dettaglio, non proprio trascurabile, che la signora era morta da più di vent’anni e si trattava, pertanto, dell’ennesimo scherzo di Soavi stesso. Eppure Montanelli lo aveva fortemente voluto con sé quando aveva dato vita al Giornale e poi anche alla Voce. «Ce ne siamo dette di tutti i colori ma ci siamo divertiti molto – ha ricordato Soavi – e quando mi ha chiamato a collaborare con lui gli ho riso in faccia, ho detto che era pazzo, che non ero un giornalista e quindi non sapevo che cosa scrivere. Tra l’altro il nome Il Giornale gliel’ho suggerito io. Lui voleva chiamarlo La Posta. Figuriamoci, avrebbe chiuso subito. “Scrivi quel cavolo che vuoi”, mi ha risposto di botto, indicandomi la porta». Stanze in cui la mancanza di questi grandi maestri di giornalismo si fa sentire ogni giorno di più.

1 commento:

Emiliano ha detto...

bel pezzo!