martedì 1 dicembre 2009

Perché dobbiamo tutti qualcosa a Pannella (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 1 dicembre 2009
Non condividiamo il giudizio di Massimo Teodori sul ruolo politico svolto nel corso di oltre sessant'anni da Marco Pannella. «È stato - ha osservato lo storico interpellato dal Riformista - molto poco aderente a quel filone tracciato dalla democrazia laica degli anni Cinquanta». Soprattutto, a suo dire, il leader storico radicale non avrebbe rappresentato con la coerenza necessaria l'eredità e la continuità del filone politico avviato a suo tempo da Mario Pannunzio.
Non siamo d'accordo, in primo luogo perché limitare a questa funzione di testimonianza identitaria quanto Pannella ha oggettivamente introdotto nella prassi politica italiana del secondo dopoguerra significherebbe non sforzarsi di fare ricorso a un'interpretazione non banale ma integrale e oltre gli schemi ideologici della nostra vicenda nazionale. E per farlo è necessario che Marco Pannella parli, dica la sua, possa esprimersi in prima persona. Per tanti anni per lui hanno parlato le sue battaglie, i suoi discorsi parlamentari, a Roma e a Bruxelles, i suoi scioperi della fame e della sete, la sua capacità di esprimere maggioranze nella società civile. Ma adesso si è raccontato in un libro fresco di stampa - Le nostre storie sono i nostri orti / ma anche i nostri ghetti (Bompiani, pp. 202, € 15,00) - in cui il leader radicale risponde alle domande e alle provocazioni di Stefano Rolando. Facendo emergere una visione della politica in cui è centrale la memoria storica e la consapevolezza di questa "compresenza" di passato, presente e futuro: «Se accetti l'idea - dice - che il nostro sguardo al futuro accolga la compresenza di vivi e di morti, la devi raccontare da ora, quella compresenza, e spiegarla, e testimoniarla, e renderla comprensibile per connettere passato e presente, pena il rischio di tagliare le radici e renderti complice della politica senza anima». Su questo Stefano Rolando è esplicito, contestando il tradimento pannelliano dell'eredità di Pannunzio e "amici del Mondo": «Pannella non è strettamente uno di loro. Ne è figlio, ne eredita parole, pensieri stili. E adatta a poco a poco questa lezione al movimento plateale che loro non hanno saputo generare ma che le libertà politiche e sociali dell'Italia repubblicana hanno prodotto. E dunque popolarizza, movimentizza, modernizza, socializza, quel pensiero che, politicamente parlando, quella generazione aveva atrofizzato». Oltretutto lo ha fatto, aggiunge l'intervistatore, interpretando la macchina del tempo, adattando agli ultimi decenni del secondo Novecento l'eredità del Risorgimento: «Quello delle azioni esemplari, quello non solo delle gesta garibaldine ma anche di Pisacane». Marco Pannella scommette, e vince, attualizzando l'eredità risorgimentale nella battaglia per la politica dei diritti civili e poi attraverso la sua impostazione referendaria: «Se eravamo minoranza quanto a espressione di voto elettorale potevamo diventare maggioranza».
Su questo schema generale Pannella ha saputo introdurre quello che più conta: una idea della politica come sintesi e non certo come testimonianza o rappresentazione di una parte. «La sintesi è una profonda trattativa», spiega. E aggiunge: «La politica è nascere insieme a una terza cosa. Oggi si dice troppo "condivisione", una cosa quasi da suk, da mercato. Parola ormai insopportabile. Il problema, invece, è quello di concepire insieme. Superare le parzialità nel nuovo. Non una diversa spartizione del vecchio. Non raschiare il fondo della botte consumata del vecchio possibile, per dirla con Max Weber, per creare il nuovo possibile». Non a caso Giulio Andreotti, per anni e anni contrastato dal leader radicale, lo ha definito «portatore di quella che un tempo chiamavamo la politica pura». E quando Pannella viene sollecitato a fare qualche nome di altri uomini politici ai quali lui riconosce la sua stessa vocazione, cita senza neanche pensarci Pino Rauti, Luciana Castellina e Teodoro Buontempo. Pannella, infatti, non si sente minoranza: «È appunto risorgimentale - precisa Rolando - perché si ostina a pensare il pensiero che altri non possono o non riescono più a pensare... lasciando così aperta l'indagine sulle parti di volta in volta escluse dalla convenzione dominante. A quelle parti Pannella ricorda di avere sempre teso una mano». Una vocazione esplicitamente oltre i recinti e gli steccati precostituiti, al di là della destra e la sinistra come alibi di regime. Pannella ricorda già in esordio che già quando giovanissimo si trovò di fronte al referendum monarchia-repubblica non poteva che rifarsi alle osservazioni di Benedetto Croce, secondo cui le monarchie europeee erano state il miglior argini ai totalitarismi: «Esprimeva - precisa il leader radicale - al tempo stesso inclinazioni di sinistra liberale e di destra storica, grosso modo la posizione che continuiamo a seguire oggi». E quando, nel 1976, Pannella pronuncia appena eletto alla Camera il suo primo discorso spiega: «Sediamo qui perché noi delle sinistre liberali e federaliste rivendichiamo anche l'eredità della destra storica». E su questo versante nel libro gli episodi significativi non mancano. «Anni fa - racconta Pannella - invitammo Almirante. Alla fine lui non venne e mandò al nostro congresso a Rimini un suo giovane collaboratore. Era Gianfranco Fini. Mi aspettavo fischi. Non ci furono che applausi». E ancora: «Venne fuori che Livio Zanetti, l'allora direttore dell'Espresso, era stato nelle camicie nere. Inizio anni '70. Scrissi su un giornale: "Ti auguro, Livio, di essere da democratico, come hai scelto di essere, così puro di cuore, come lo fosti quando scegliesti la causa sbagliata"». Pannella, comunque, si rivolge anche alla destra di oggi, quella - lui rileva - che fa propria la lezione di Spadolini e Pannunzio. E racconta: «Già a un congresso del Msi, non di An, dissi che loro sarebbero stati eredi del "fascismo movimento" e non del "fascismo regime" quando avessero messo nel loro pantheon Ernesto Rossi e altri come lui. Fui applauditissimo». Aggiungendo, d'altronde, di sapere che Giovanni Gentile fu presentato fino al '25 come un filosofo liberale e che la sua riforma scolastica aveva qualcosa di molto laico: «C'è un filone che spiega le cose».
Anche sulla politica di oggi Pannella mostra di avere le idee chiare. «Non è giusto - dice - mettere tutta la croce addosso a Berlusconi». Il nodo irrisolto è la necessaria rottura, con la Prima Repubblica, quell'assetto che aveva fatto «il vuoto costituzionale e di diritto e che ha sostituito «alla legalità gli emergenzialismi». Un progetto per il quale Pannella sembra confidare in Gianfranco Fini, le cui prese di posizioni vede contaminate da «chi ha sostenuto in chiave liberale la cultura dei diritti nel nostro paese». E un progetto che prevede, in sostanza, il superamento della versione «muscolare» della nostra democrazia: «È la nozione di nemico - conclude Pannella - che considero vecchia. la politica ha bisogno di dialogo (e di sintesi). I radicali sono stati i primi a esprimere l'idea di associarsi senza perdere altre connotazioni e altre appartenenze. Cioè contro l'idea che i partiti siano una setta o un'etnia. Per noi l'etnos diventa etos. Non ci sono nemici. E soprattutto non c'è il dito puntato contro».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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