Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 dicembre 2009
Il coraggio non è una bussola. È la vela che si gonfia e ti fa muovere, anche quando il vento e il mare non promettono niente di buono. È l'ancora che ti permette di fermarti e di attendere senza andare alla deriva. Il coraggio è la dote principale di Carmen Consoli, che risalta tanto più forte in un'epoca come la nostra in cui la vigliaccheria e l'opportunismo sono talmente diffusi da non essere neanche più stigmatizzati come difetti. Tutti a fare i manager di se stessi, senza chiedersi minimamente se il prodotto che intendono piazzare abbia davvero un valore. Un valore intrinseco. Non un valore di scambio.
A inizio carriera Carmen Consoli si trovò subito di fronte al classico bivio delle cantanti alle prime armi. I discografici intravidero le sue capacità, o piuttosto il suo potenziale di successo e di guadagno, e le proposero di affidarsi a loro e di lasciarsi guidare. Qualche correzione qua e là. Qualche adattamento qua e là. Il talento come mero punto di partenza. Come materia grezza da levigare accuratamente (accortamente) affinché nessuna asperità eccessiva metta in allarme il grande pubblico e lo induca ad allontanarsi. O a non avvicinarsi nemmeno. Carmen ha seguito l'istinto e ha detto di no. Il suo obiettivo non era vendere montagne di dischi e farsi intervistare da Sorrisi e canzoni Tv. I dischi, e specialmente le "montagne di dischi", sono solo l'eventuale conseguenza di due atti, o di due magie, che avvengono quando avvengono, fuori da qualunque pianificazione e da qualsiasi calcolo. Arrivare a scrivere qualcosa di nuovo è frutto di un'attenzione, non di una decisione. L'artista vero tende spesso l'orecchio, nella speranza di captare ciò che solo lui è in grado di cogliere, ma non fa mai finta di esserci riuscito, se il tentativo è andato a vuoto. Il rumore di fondo del vivere è forte. Spesso, purtroppo, così forte da trasformarsi in una barriera impenetrabile, anche per chi ha il dono di saper udire una piccolissima armonia lontana e quasi impercettibile, dietro tutto quel frastuono - o quel ronzio.
Carmen Consoli avrebbe potuto cantare come tutti. Anzi: come tutte. Avrebbe potuto diventare l'ennesimo clone di un certo modo di concepire le cantanti, e più in generale le donne, la cui parola d'ordine è "rassicurazione". La bellezza fisica come conferma di un'aspettativa di derivazione sessuale. La melodia immediata come illusione che vi sia un valore artistico e che quel valore sia alla portata di tutti. L'amalgama tra musica e parole, con la metrica a puntino e l'intonazione lineare, come riflesso dell'ordine (ordine, non armonia) che deve sussistere all'interno della società nel suo complesso. Non c'è nulla come un'inquietudine diffusa, a preoccupare chi detiene il potere. L'inquietudine è segno di insoddisfazione. L'insoddisfazione è il timer della rivolta: l'establishment se ne fotte di molte cose, ma a questo ticchettio ci sta attento. Se lo ricorda bene, il motto "panem et circenses". Sa benissimo che, soprattutto quando scarseggia il "panem", i "circenses" devono essere divertenti. Così divertenti da far dimenticare tutto il resto.
Carmen Consoli non è per nulla "divertente". La sua dimensione naturale non è quella del sogno pseudo romantico in cui basta chiudere gli occhi per galleggiare nell'oceano della dolcezza. Nelle emozioni che sprigiona c'è una dose robusta di dubbio. E quindi di insicurezza. O tout court di frustrazione. Il suo modo strano di disporre le parole sulla musica, sia nel comporre che nel cantare, rispecchia questo disallineamento tra i desideri e la realtà. La musica sgorga dal cuore e apre squarci di intensità. I versi passano dal cervello e senza volerlo ne raccolgono le scorie. La vita diventa esperienza e l'esperienza tiene un'assidua contabilità dei nostri errori e delle nostre delusioni. Impossibile essere sinceri e affermare che va tutto bene. Difficile, difficilissimo, continuare a sperare che all'improvviso arrivi un miracolo e ci regali l'incantesimo di una felicità permanente.
La sola chiave di volta, forse, è nel guardare all'esistenza non come singole persone in cerca di un'apoteosi individuale - non importa in quale campo, dagli affetti al lavoro, dentro il microcosmo protettivo della famiglia o nella terra di nessuno della lotta per il successo - ma come elementi di una realtà più ampia, che si dispiega nel presente ma che trae la sua linfa vitale dal passato. «Il rock l'ho suonato per tanto tempo, sperimentandolo anche nelle forme estreme del "noise" (letteralmente "rumore"; in realtà tendenza a fare musica utilizzando materiali sonori diversi dalle sette note, ndr), ma ora ho bisogno di altri mezzi di espressione, di una voce più pacata che canta senza sforzarsi in alto. Oggi il flautino del pastore dell'Etna, il cosiddetto "friscalettu", mi appare più trasgressivo di una chitarra rock. Il rock è nato in America. In Italia è nata la tarantella».
Carmen lo ha detto già tre anni e mezzo fa, al tempo in cui usciva il suo penultimo album, Eva contro Eva. Quello nuovo, che si intitola Elettra, conferma che il cambiamento di traiettoria non era una digressione occasionale ma il primo capitolo di un'esplorazione che è appena cominciata. La "cantantessa", come la chiamano da sempre, ha compiuto 35 anni e mostra un bisogno crescente di stabilizzare la sua ricerca, in senso sia artistico che esistenziale. La "rockeuse" che aveva troppa fretta di esprimersi e troppa paura di snaturarsi, per limare i suoi testi, cede il posto a un'artista che ha capito che dominare la propria urgenza non significa affatto tradirla. Lei dice di sentirsi «non più adeguata», in un Paese in cui «la maggioranza sembra addormentata e la cultura è una nicchia». Ma in questo si sbaglia. L'Italia, nonostante tutto, continua a essere una realtà molto più diversificata e vitale di quanto non appaia nella sua rappresentazione mediatica. Per quanto esteso, lo stordimento collettivo può essere superato. E in attesa di essere superato deve essere combattuto, nel modo pacifico e luminoso di chi non si lascia risucchiare nell'andazzo generale. La prima e la migliore risposta al degrado circostante è liberare intorno a sé un flusso sempre più ricco di comportamenti del tutto diversi, nella vita come nell'arte. Certo, ci vuole coraggio.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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