domenica 13 dicembre 2009

Quando il calcio è amore e metafora della nostra vita

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 dicembre 2009
«Tutto quel che so della vita l’ho imparato dal calcio». No, la citazione non è tratta da una delle autobiografie scritte (o commissionate) da sportivi famosi che fanno sempre più bella mostra nelle librerie. La confessione è di Albert Camus, il celebre scrittore francese d’origine algerina. Che, se non fosse stato fermato dalla tubercolosi quand’era ragazzo, piuttosto che “ripiegare” sugli studi filosofici e “accontentarsi” del nobel per la letteratura, magari avrebbe coronato l’ambizione di diventare un grande portiere. In tutt’altro ruolo giocava, invece, lo spezzino Roberto Perrone, classe 1957. «Ero un attaccante alla Milito – ci racconta – sempre sul filo del fuorigioco, sempre al posto giusto». È stata la dichiarata «devastante passione per il cibo» a fermarlo e a farne l’autore di “gustosi” libri di “ricette per tifosi”? Oppure, verrebbe da pensare, non era così sicuro dei suoi mezzi se, giovanissimo, ha scelto di dedicarsi al giornalismo invece di inseguire il sogno di indossare la divisa del suo Genoa e appuntarvi un giorno l’agognata stella del decimo scudetto. È rimasto, però, sempre vicino al tappeto verde e ne ha raccontato come pochi altri l’imprevedibilità. Perché, per tornare alle parole del padre dell’esistenzialismo, «il pallone non va mai dove te l’aspetti». Lo ha fatto sul Corriere della Sera, testata per la quale ha seguito nell’ultimo decennio tutti i principali avvenimenti sportivi, ma più recentemente anche nei suoi romanzi.
L’ultimo, La ballata dell’amore salato (Mondadori p. 222, € 18), è da poche settimane in libreria. Titolo che è anche una dedica. Doppia. «Al Corto Maltese di Hugo Pratt ma anche ai cantautori genovesi e a De Andrè in particolare». Calcio, fumetti e musica. Mondi che qualcuno si ostina ancora a considerare inconciliabili con la letteratura. Tanto radicati nell’immaginario collettivo quanto ignorati dagli scrittori. Chi c’ha provato – come Luciano Bianciardi, che si spinse fino a tenere una rubrica sul Guerin Sportivo – è stato trattato peggio d’un pornografo. E persino grandissimi come Gianni Brera e Giovanni Arpino, per questo loro capriccio di fare “letteratura sportiva”, sono stati guardati con diffidenza dai colleghi. «Da allora la situazione non è migliorata – ci dice Perrone – e conosco tanti scrittori appassionati di calcio che non si sognerebbero mai di scriverne, neanche lasciandolo sullo sfondo. Vivono la passione in maniera fantozziana: tv, poltrona, rutto libero. Per loro il confine rimane netto: da una parte il calcio, dall’altra la letteratura». Perrone (nella foto a destra), invece, quel confine l’ha superato di slancio, avvincendo nella lettura anche chi credeva di essere immune al fascino del football. Perché nei suoi romanzi non c’è alcuna concessione al calcio psicologico, sociologico o meramente statistico. «Il gioco – spiega – altro non è che la continuazione della nostra vita con il pallone e in esso possiamo riconoscere tutti gli elementi che la caratterizzano: i rapporti umani non sempre facili, i sogni e le delusioni, l’amore e l’amicizia ma anche l’odio e lo scontro». Sentimenti e risentimenti che si affrontano ne La ballata dell’amore salato e che costringono il protagonista a rinunciare al derby che vede il Genoa impegnato a Marassi contro la Sampdoria di quei «due diavoli di Mancini e Vialli» – ché siamo all’alba degli anni Novanta – per giocare una partita ben più importante tra l’amore per una moglie scomparsa da poco e l’orgoglio ferito dal “tradimento”. Una partita in cui il “risultato finale” sarà determinato proprio da una donna, la moglie del figlio. Sì, perché i personaggi femminili tratteggiati da Perrone – forti e intuitivi, emancipati quanto determinati – sono tutt’altro che decorativi o subalterni a quelli maschili, altrettanto notevoli.
A cominciare dal trentaseienne ragionier Walter Vismara, protagonista del primo romanzo (Zamora, Garzanti 2003, p. 138), ambientato nella Milano del boom economico, tra fabbriche e nebbia, minigonne, bar e campetti di periferia. Quelle strutture spesso fatiscenti in cui da sempre milioni di ragazzi prendono le misure alla vita. «L’amore mio smodato per lo sport – ha testimoniato al riguardo Giampiero Mughini ne La mia generazione (Mondadori 2002, p. 175) – nasce su quei campi, dove ho imparato infinitamente di più che non al liceo classico».
Il timido Vismara, al contrario, non ha fatto lo stesso apprendistato. Non ama il calcio, è costretto a praticarlo solo quando finisce alle dipendenze del commendator Tosetto, un vero fanatico del folber. All’improvviso nelle sue tranquille settimane fanno irruzione penosi allenamenti finalizzati alla sfida annuale tra scapoli e ammogliati. Si inventa portiere e i colleghi, per dileggiarlo, lo chiamano Zamora, come il mitico numero uno spagnolo degli anni Trenta. Riuscirà a riscattarsi grazie a Cavazzoni, l’ex portiere del Milan e della nazionale che gli darà “ripetizioni” clandestine in un rapporto d’amicizia in cui ognuno imparerà qualcosa dall’altro. Se invece che nei Sessanta, Perrone avesse deciso di far svolgere la storia nell’attualità, l’estremo difensore di riferimento sarebbe stato senz’altro Gigi Buffon, con il quale ha scritto a quattro mani la biografia Numero 1 (Rizzoli 2008, p. 174). «Anche se penso che si stia esagerando con questa mania delle biografie – ci dice – ho accettato volentieri di aiutarlo perché lo considero, oltre che un bel personaggio, una persona schietta e un amico».
Altra storia d’amicizia è La lunga (Garzanti 2007, p. 170). Sarà proprio per onorare una vecchia amicizia a distanza che il tranquillo Giacinto Mortola, stagionato cronista sportivo in un quotidiano importante, da tempo assegnato alla cucina del giornale e alle “lunghe” e ormai alle soglie del pensionamento, scriverà in una di quelle notti solitarie un pezzo in ricordo dell’amico rimasto ucciso in un incidente stradale – Simone Perasso, un calciatore dimenticato che molti anni prima aveva giocato in serie A e segnato due gol nel Torino prima di finire una modesta carriera nelle serie inferiori – cambiando il giornale e suscitando, al giorno dopo, le ire del proprio aguzzino: il caporedattore Nando Angrisani. Quando il suo licenziamento sembra inevitabile, accade qualcosa di assolutamente imprevedibile a rimescolare le carte. Antonio Maraudo, nuovo amministratore delegato del gruppo editoriale, ricordava benissimo la fugace vita sportiva di Perasso: «Quella domenica, il 18 febbraio 1973, si giocava Torino-Sampdoria ed ero allo stadio per la prima volta nella mia vita, con tre coetanei. Avevamo dodici anni e i nostri genitori ci avevano concesso di andare da soli. Ricordo ogni attimo. Era un pomeriggio livido, gelido. I cori, la gente, le bandiere. Due gol di Perasso. La vittoria. Lei, dottor Mortola, lo ha descritto benissimo. Fu appassionante. Quell’esperienza ci ha consegnato una grande amicizia, di quelle “che resistono alla lontananza, perché ogni volta che ci si rivede o ci si risente basta un cenno, uno sguardo per recuperare il tempo e lo spazio della separazione”. L’ha scritto lei nel suo articolo di oggi. Dopo la laurea, ognuno ha preso la sua strada. C’è rimasto quel pomeriggio a unirci. L’abbiamo sempre preso come un legame indissolubile. Da quel giorno, anche se viviamo in città e continenti diversi, ogni 18 febbraio ci incontriamo e sa come ci chiamiamo? Il club Perasso».
Il sottotitolo de La lunga è «Quando lo sport e il giornalismo erano più umani». Quando il calcio – aggiungiamo noi – era quello romantico delle formazioni recitate come una filastrocca. Perrone, però, puntualizza: «Fu una scelta editoriale, comprensibile. Ma io non l’avrei messo. Non è la nostalgia la protagonista del mio libro, anche se è indubitabile che ci sia stato un imbarbarirsi dei rapporti umani. Però non mi piace unirmi al coro di chi dice che il calcio moderno è solo pettegolezzi e soldi». E infatti il successivo Averti trovato ora (Mondadori 2008, p. 212) è ambientato ai tempi nostri e racconta la storia d’amore, fuori dai consueti clichè degli amorazzi tra calciatori e veline, di Marco – tanto colto da essere definito “professorino” dai compagni di squadra – e una donna sposata, Anna, una professoressa universitaria molto più grande di lui.
E di amicizia e amore – «ogni volta che guardava sua moglie il desiderio lo trapassava come una specie di dolore, come se quella donna fosse sempre troppo per lui» – narra anche l’ultimo La ballata dell’amore salato. Il protagonista cui accennavamo è Girolamo Moggia, uomo solido, di poche parole e di rare passioni, tra cui quella per il Genoa. Sia pure al secondo posto in una rigida gerarchia sentimentale. Perché «se lei gli avesse chiesto di abbandonare la squadra al suo tribolato destino, non avrebbe avuto dubbi. Il Genoa era importante, ma lei era lei». A iniziarlo a quelle domeniche allo stadio era stato un amico, portandolo a vedere il primo derby, nel ’46. Un vero e proprio colpo di fulmine. «S’innamorò del Genoa grazie a una sconfitta. Era fatto così: i vincitori, in genere, lo irritavano». A conquistare quest’uomo schivo era stata l’atmosfera della gradinata: «Lo aveva avvolto, circondato, colpito. Lui che aveva sempre odiato la massa, si era fatto cullare dall’ondeggiare dei corpi. Anche quando era stato spinto fuori dalla folla in una direzione che non avrebbe preso ma che era stato costretto a percorrere per inerzia, si era sentito bene. Lo stadio era l’unico luogo in cui gli piaceva farsi trascinare dalla corrente». Gli piaceva il rapporto cameratesco che si creava. «Si sentivano legati per lo spazio di un pomeriggio, che poteva sembrare poco, ma non lo era, perché non era solo una questione di tempo, ma di ideali. C’era tra loro un affetto reciproco. Erano persone che sapevano poco l’uno dell’altra, ma stavano lì tutti per lo stesso motivo».
Non si trova altrettanto a suo agio nella sezione del Pci che frequenta. Troppi ricchi invitati a tenere lezioni. E i ricchi non sono gente come lui, che per lavoro ha fatto il picchiettino, uno di quegli operai che scendono a pulire le caldaie quando le navi si fermano al porto. Non in una qualsiasi, ma nella terribile Nave Scuola Redenzione Garaventa, che le madri genovesi usavano a mo’ di spauracchio per i figli che facevano i capricci. Altro che uomo nero: «Se non la smetti ti mando sulla Garaventa». E poi quei preti operai… Secondo lui tutti devono fare quello che sono chiamati a fare. «Per me se uno è ricco non può fare il comunista – protesta – e così se uno è prete non può fare l’operaio». Non riesce a nascondere la propria insofferenza. Quando un dirigente lo rimprovera di non essere di sinistra, risponde seccamente: «Sicuramente non di questa sinistra, non della vostra». E neanche di quella del figlio, che «dalle sprangate proletarie con l’eskimo» passerà nell’arco di qualche anno a una sin troppo borghese vita «tutta riunioni e pranzi di lavoro». E che forse, come Girolamo si ripete con un pizzico di rimpianto, si sarebbe dato altre priorità se solo l’avesse chiamato Abbadie, dal nome del calciatore uruguaiano che, con i suoi passaggi vellutati e millimetrici, aveva fatto vincere il derby al grifone proprio nella domenica in cui il figlio era venuto al mondo.
Posto di fronte all’aut aut dell’iscrizione al partito comunista, estrae una tessera plastificata: abbonamento Genoa Cricket and Football Club… «Questa, compagno – gli risponde – è l’unica tessera che entrerà mai nel mio portafoglio». Del resto trova ormai intollerabile quella cappa ideologica, quella pretesa di spiegargli persino quali film è bene vedere oppure no. «In sezione gli avevano spiegato che John Wayne era un fascista. Ma i suoi western erano i migliori, secondo la sua idea che le cose devono essere quello che sono. Lui non poteva sopportare i western intimisti, quelli dove si sparava poco e si ragionava troppo, quelli in cui gli indiani subivano, inermi e rassegnati, le angherie dei bianchi. Almeno nei western, perdio, qualche pistolettata gli piaceva vederla, almeno nei western, gli indiani dovevano darci dentro». Non che lui fosse incline alla violenza. «Menare le mani era sempre sinonimo di debolezza, una sconfitta». Anche se un «paio di ceffoni» li avrebbe rifilati volentieri ai brigatisti e ai loro fiancheggiatori intenti a distribuire i loro «volantini farneticanti». E lui che non piangeva mai, piange al funerale dell’operaio Guido Rossa, assassinato dalle Brigate Rosse. «E lo fa ringraziando la pioggia, che in realtà aveva sempre trovato fastidiosa». Stavolta, però, nessuno avrebbe potuto accorgersi che sul suo viso non c’erano solo gocce di acqua piovana, ma anche lacrime.

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