Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 dicembre 2009
Soltanto cover, stavolta. In questo Ho imparato a sognare, che arriva quasi esattamente a dodici mesi di distanza da Il movimento del dare, non c’è nessun inedito in senso assoluto. Nulla che sia stato scritto da qualcun altro in esclusiva per lei, affinché lei lo canti, lo interpreti, e cantandolo lo completi, aggiungendo allo spirito della scrittura la carne della voce. Per Fiorella Mannoia è la prima volta che accade, e lei lo vive con una soddisfazione che sembra avere qualcosa di liberatorio. Come se finalmente stesse dischiudendo un orizzonte molto più vasto, che d’ora in poi le potrà permettere di non dover più attendere che arrivi la proposta giusta, prima di incidere un nuovo brano, e di non dover più aspettare di accumularne almeno cinque o sei, prima di realizzare un nuovo album. Se questa scelta di (ri)proporre pezzi già noti si dovesse consolidare, e c’è motivo di credere che sia così, il mutamento sarebbe sostanziale, al punto di aprire una terza fase della sua lunga carriera.
La prima, dopo il prologo agli inizi degli anni Settanta, è quella che cominciò nel 1980 col passaggio alla CGD e con le collaborazioni insieme a Pierangelo Bertoli, per poi snodarsi attraverso atmosfere molto diverse, dalle fin troppo spigliate Caffè nero bollente e E muoviti un po’ alle già più interessanti Come si cambia e Sorvolando Eilat; la seconda, che l’ha consacrata come l’interprete ideale di autori come Ivano Fossati, Francesco De Gregori ed Enrico Ruggeri, si apre nel 1987 con Quello che le donne non dicono, Premio della Critica a Sanremo, e si sviluppa l’anno successivo con Canzoni per parlare, primo album di una sorta di splendida trilogia che comprende anche Di terra e di vento, del 1989, e I treni a vapore, del 1992. Il prosieguo era stato più altalenante, ma la caratteristica fondamentale non era mai venuta meno: formalmente era solo una cantante, visto che non scriveva né una nota né una parola; artisticamente sembrava una cantautrice, per il modo in cui riusciva a riempire di senso e di partecipazione ogni singolo istante, mostrando un coinvolgimento così forte da far pensare che fosse stata lei a inventare quelle melodie e a intrecciare quei versi. E la suggestione, naturalmente, era avvalorata dal fatto che si trattava appunto di inediti: era tutto nuovo, come un Paese che si visita per la prima volta; sorprendente come una verità che si svela; inebriante come una fragranza che si sprigiona all’improvviso. Era come se la sua ricerca, la sua attesa, la sua scoperta del brano in cui specchiarsi, e in cui riconoscersi, avessero anticipato il nostro bisogno di fare altrettanto. Si era spinta laggiù (lassù) e aveva trovato quel che cercava. Adesso srotolava la mappa sotto i nostri occhi e a noi bastava osservarla attentamente, per essere trasportati in quegli stessi territori.
Con le cover è più difficile, se non proprio impossibile. E quanto più l’originale è già noto, o addirittura celebre, tanto più si oscilla tra i rischi contrapposti del superfluo e dell’arbitrario. Della ripetizione o dello stravolgimento. Lei ne è consapevole, com’è ovvio, e ne parla con franchezza nel dvd che accompagna il nuovo album e che mostra alcune fasi della preparazione dei brani, plasmati a poco a poco in un casale toscano che si affaccia (c’è da dirlo?) su un panorama incantevole e rasserenante, di quelli che nessuna metropoli potrà mai eguagliare o anche solo avvicinare – con buona pace di qualsiasi skyline a base di grattacieli svettanti contro il cielo, e infilzati sul nulla.
«Non avevo mai cantato Lucio Battisti prima d’ora. Non lo avevo mai cantato perché cimentarsi con un autore così popolare è sempre difficile. È come quando ti avvicini ai Beatles. Tu canti Let It Be... ma che puoi dire che non abbiano già detto in tutto il mondo? (...) Poi però ti domandi, perché no? Alla fine, facendo, così, tu tieni lontano dal tuo repertorio un autore che è stato forse il più amato in assoluto, nel nostro Paese.»
Così, ecco comparire la strana accoppiata di E penso a te e Una giornata uggiosa. Due episodi estremamente lontani già all’origine: il primo nel segno della piena armonia creativa tra Mogol e Battisti, quando la semplicità del primo non era stata ancora svuotata dall’eccesso di tecnica, nella smania permanente di avere successo, e quella del secondo non era stata ancora schiantata dall’eccesso di autodisciplina, nel timore di essere troppo accomodante e di sacrificare al successo la propria libertà personale e la propria integrità artistica; il secondo come ultimo lampo, di una luce ancora potente ma oramai artificiale, prima della separazione definitiva. In una sorta di simmetria involontaria, Fiorella brilla nella prima e appare sfocata nella seconda. Può venire spontaneo pensare che dipenda dal tipo di arrangiamento: mentre E penso a te si mantiene nel solco dell’originale, Una giornata uggiosa viene rielaborata a tal punto da diventare tutta un’altra cosa. É una spiegazione troppo semplice. E, allo stesso tempo, troppo complicata. Quello che non va non è la veste strumentale. È la distanza incolmabile tra quel tipo di pezzo e le attitudini interpretative della Mannoia, che è certamente una fuoriclasse, finché si muove all’interno di certe coordinate, ma che è tutt’altro che una cantante universale, sempre ammesso che ne esistano (e che siano auspicabili).
L’impressione, analogamente a ciò che era avvenuto un paio d’anni fa con la versione di Dio è morto, è che lei si faccia guidare eccessivamente dall’istinto, confondendo la musica che le piace, come ascoltatrice, con la musica che le si confà, come artista. Lo stesso equivoco che può tradursi, poi, in un altro atteggiamento fuorviante, che potremmo definire “eccesso di generosità”: si ascolta una canzone appena discreta e, siccome la si trova gradevole, la si mette sul medesimo piano di composizioni di ben altra profondità. La simpatia al posto dei giudizi, per così dire. Che accada al grande pubblico è pressoché inevitabile. Che accada a un’artista di valore come la Mannoia, che ha avuto il grande merito di aggiungere una risonanza tutta femminile ad alcuni grandi brani scritti da cantautori uomini, fa temere che una certa ansia di libertà e di divertimento le stia prendendo la mano.
La prima, dopo il prologo agli inizi degli anni Settanta, è quella che cominciò nel 1980 col passaggio alla CGD e con le collaborazioni insieme a Pierangelo Bertoli, per poi snodarsi attraverso atmosfere molto diverse, dalle fin troppo spigliate Caffè nero bollente e E muoviti un po’ alle già più interessanti Come si cambia e Sorvolando Eilat; la seconda, che l’ha consacrata come l’interprete ideale di autori come Ivano Fossati, Francesco De Gregori ed Enrico Ruggeri, si apre nel 1987 con Quello che le donne non dicono, Premio della Critica a Sanremo, e si sviluppa l’anno successivo con Canzoni per parlare, primo album di una sorta di splendida trilogia che comprende anche Di terra e di vento, del 1989, e I treni a vapore, del 1992. Il prosieguo era stato più altalenante, ma la caratteristica fondamentale non era mai venuta meno: formalmente era solo una cantante, visto che non scriveva né una nota né una parola; artisticamente sembrava una cantautrice, per il modo in cui riusciva a riempire di senso e di partecipazione ogni singolo istante, mostrando un coinvolgimento così forte da far pensare che fosse stata lei a inventare quelle melodie e a intrecciare quei versi. E la suggestione, naturalmente, era avvalorata dal fatto che si trattava appunto di inediti: era tutto nuovo, come un Paese che si visita per la prima volta; sorprendente come una verità che si svela; inebriante come una fragranza che si sprigiona all’improvviso. Era come se la sua ricerca, la sua attesa, la sua scoperta del brano in cui specchiarsi, e in cui riconoscersi, avessero anticipato il nostro bisogno di fare altrettanto. Si era spinta laggiù (lassù) e aveva trovato quel che cercava. Adesso srotolava la mappa sotto i nostri occhi e a noi bastava osservarla attentamente, per essere trasportati in quegli stessi territori.
Con le cover è più difficile, se non proprio impossibile. E quanto più l’originale è già noto, o addirittura celebre, tanto più si oscilla tra i rischi contrapposti del superfluo e dell’arbitrario. Della ripetizione o dello stravolgimento. Lei ne è consapevole, com’è ovvio, e ne parla con franchezza nel dvd che accompagna il nuovo album e che mostra alcune fasi della preparazione dei brani, plasmati a poco a poco in un casale toscano che si affaccia (c’è da dirlo?) su un panorama incantevole e rasserenante, di quelli che nessuna metropoli potrà mai eguagliare o anche solo avvicinare – con buona pace di qualsiasi skyline a base di grattacieli svettanti contro il cielo, e infilzati sul nulla.
«Non avevo mai cantato Lucio Battisti prima d’ora. Non lo avevo mai cantato perché cimentarsi con un autore così popolare è sempre difficile. È come quando ti avvicini ai Beatles. Tu canti Let It Be... ma che puoi dire che non abbiano già detto in tutto il mondo? (...) Poi però ti domandi, perché no? Alla fine, facendo, così, tu tieni lontano dal tuo repertorio un autore che è stato forse il più amato in assoluto, nel nostro Paese.»
Così, ecco comparire la strana accoppiata di E penso a te e Una giornata uggiosa. Due episodi estremamente lontani già all’origine: il primo nel segno della piena armonia creativa tra Mogol e Battisti, quando la semplicità del primo non era stata ancora svuotata dall’eccesso di tecnica, nella smania permanente di avere successo, e quella del secondo non era stata ancora schiantata dall’eccesso di autodisciplina, nel timore di essere troppo accomodante e di sacrificare al successo la propria libertà personale e la propria integrità artistica; il secondo come ultimo lampo, di una luce ancora potente ma oramai artificiale, prima della separazione definitiva. In una sorta di simmetria involontaria, Fiorella brilla nella prima e appare sfocata nella seconda. Può venire spontaneo pensare che dipenda dal tipo di arrangiamento: mentre E penso a te si mantiene nel solco dell’originale, Una giornata uggiosa viene rielaborata a tal punto da diventare tutta un’altra cosa. É una spiegazione troppo semplice. E, allo stesso tempo, troppo complicata. Quello che non va non è la veste strumentale. È la distanza incolmabile tra quel tipo di pezzo e le attitudini interpretative della Mannoia, che è certamente una fuoriclasse, finché si muove all’interno di certe coordinate, ma che è tutt’altro che una cantante universale, sempre ammesso che ne esistano (e che siano auspicabili).
L’impressione, analogamente a ciò che era avvenuto un paio d’anni fa con la versione di Dio è morto, è che lei si faccia guidare eccessivamente dall’istinto, confondendo la musica che le piace, come ascoltatrice, con la musica che le si confà, come artista. Lo stesso equivoco che può tradursi, poi, in un altro atteggiamento fuorviante, che potremmo definire “eccesso di generosità”: si ascolta una canzone appena discreta e, siccome la si trova gradevole, la si mette sul medesimo piano di composizioni di ben altra profondità. La simpatia al posto dei giudizi, per così dire. Che accada al grande pubblico è pressoché inevitabile. Che accada a un’artista di valore come la Mannoia, che ha avuto il grande merito di aggiungere una risonanza tutta femminile ad alcuni grandi brani scritti da cantautori uomini, fa temere che una certa ansia di libertà e di divertimento le stia prendendo la mano.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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