Dal Secolo d'Italia di venerdì 11 dicembre 2009
Quarant'anni fa come domani, il 12 dicembre del 1969, si compiva la tragedia di piazza Fontana. Un ordigno costituito da sei, forse otto chili di tritolo esplodeva all'interno del salone della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano. Morirono dilaniate diciassette persone, ne rimasero ferite oltre cinquanta. Non era il primo episodio di terrorismo della nostra storia nazionale. Negli anni '60 il separatismo altoatesino s'era già tragicamente espresso a colpi di tritolo, e tornando un po' indietro con la memoria, la Repubblica era stata battezzata dal massacro di Portella della Ginestra. Ma erano episodi un po' lontani, o scarsamente avvertiti da chi credeva che, in fondo, se un episodio segnava il paese ai suoi confini, si potesse relegare appunto a storia di frontiera, a fatto meramente locale.
Piazza Fontana fu qualcosa di radicalmente diverso. Il nome stesso dell'evento, "strage di piazza Fontana", non rende ragione della logica aberrante di quello che quel giorno fu pianificato e attuato con cinismo. Derogando al buon uso di non usare parole straniere, sarebbe più appropriato infatti parlare di bombing del 12 dicembre, perché quel venerdì tragico di attentati ne furono compiuti ben cinque, tra Milano, dove avvenne la strage, e Roma, dove avrebbe potuto accaderne un'altra di proporzioni anche maggiori. Una tecnica multipla che era giaà stata sperimentata, seppure in chiave minore, la notte tra l'8 e il 9 agosto di quello stesso anno, quando a essere colpiti furono dieci treni passeggeri, affollati da inermi turisti. Una tecnica, oggi possiamo dirlo, che doveva amplificare al massimo il terrore partendo da risorse, operative e logistiche, davvero molto modeste.L
a polizia di allora, assai meno preparata di quella di oggi a fronteggiare il terrorismo, fu lesta, sicuramente troppo, nell'individuare un presunto colpevole in Pietro Valpreda, un personaggio pittoresco che a 37 anni suonati alternava la professione di ballerino alla frequentazione di gruppuscoli anarchici. Gruppuscoli che avevano indubbiamente dimestichezza con le bombe, ma che sarebbe improprio definire sanguinari o terroristici. C'era, è vero, il precedente dell'attentato del 1921 al teatro Diana, sempre a Milano, quando il folle proposito di ammazzare il questore aveva provocato la morte di una ventina di spettatori, il cui unico torto era trovarsi in un teatro vicino alla casa dell'odiato funzionario di Ps. Ma gli anarchici di fine anni Sessanta erano degli inconcludenti parolai, e quando si decidevano a fare il botto, si contentavano in genere di distruggere cose e simboli.
Questa faciloneria un po' guascona era quanto di meglio serviva a chi, per dovere istituzionale, fosse in cerca di un colpevole. D'altronde, come nel divertente racconto di Gilbert K. Chesterton L'uomo che fu Giovedì, la polizia sorvegliava in modo talmente stretto gli anarchici che non di rado infiltrati, provocatori e delatori sopravanzavano in numero i veri simpatizzanti. Trascorsero meno di un paio d'anni e Valpreda non fu più comunque il solo imputato. La magistratura fece fiorire, accanto all'istruttoria contro gli anarchici, anche una cosiddetta "pista nera", che portava nel cuore del Veneto. Ora sulla scena c'erano due ipotesi investigative molto diverse. Da un lato gli anarchici, con le loro fumose riunioni nelle bottiglierie di Brera, dall'altro un gruppo di estrema destra che soleva radunarsi intorno ad un giovane procuratore legale di idee paganeggianti e simpatizzante per il Terzo Reich di Padova, l'editore Franco Freda, nella cui libreria si leggeva Evola e Nietzsche. Era gente che non solo stampava pamphlet "rivoluzionari" - in cui si invocava il superamento del sistema borghese e il possibile avvento di comunità organiche di popolo - ma sembrava addirittura contaminarsi con gli estremisti di sinistra.
Come conciliare personaggi e storie così diverse? Dov'era la verità? E soprattutto, via via che emergevano prove materiali, della presunta pericolosità del gruppo Freda, diventava sempre più forte il dubbio che gli anarchici fossero stati dati in pasto alla giustizia per meglio occultare colpe e disegni la cui matrice andava cercata altrove. L'opinione pubblica fu spinta a porsi domande che erano e rimangono legittime: come mai così tante energie erano state spese per sorvegliare gli anarchici, peraltro senza riuscire a impedire loro di compiere gravi attentati, mentre quegli altri gruppi veneti sembravano addirittura aver goduto di qualche protezione? Almeno questa era la versione che si era imposta con il libro di controinformazione La strage di Stato, le cui fonti erano assai discutibili ma che divenne una sorta di "pamphlet "politico quasi per un intero decennio. Non significava questo che il disegno era più vasto, che coinvolgeva una regia sapiente? Forse il disegno di chi voleva istaurare, sul sangue delle vittime, una presunta svolta politica, o conservare a ogni costo il paese nella sfera di influenza atlantica? Non era dunque ragionevole includere tra i mandanti della strage un arco di forze che andava dal regime democristiano ai fautori di un certo presidenzialismo, dai reazionari anticomunisti agli americani?
Oggi sappiamo che la situazione era estremamente più complessa, molto più affollata e contraddittoria di qualsiasi ricostruzione semplificatrice. E indubbiamente, acefala. Forse, addirittura, non vi fu un'unica regia. Non vi fu un piano. Piuttosto uno spettacolo sanguinoso e scellerato, contraddittorio e non di rado squallido, dove ogni genere di attori, dai politici ai magistrati, dagli eversori ai tanto giornalisti, i cosiddetti "pistaroli", seppe ritagliarsi una posizione di vantaggio.
Gli anarchici in effetti non disdegnavano il tritolo. E si prestavano, colpevolmente, per conclamata immaturità politica, a facili strumentalizzazioni, anche se ancora oggi ammetterlo suscita un incomprensibile scandalo. La polizia esercitava una sorveglianza anche sui gruppi di estrema destra, avendo modo di conoscerne le persone e i movimenti. E chi controllo può sempre mettere in mezzo, magari strumentalizzare ai fini di depistaggio. E i servizi italiani e americani? Sapevano di un certo fermento nel nord-est, galvanizzato da un clima di perdurante guerra fredda e dalla vicinanza geografica con il comunismo titino? È ora di ammettere, senza reticenze, che sapevano, e che decisero di giocare con il fuoco, anche a rischio di scottarsi. A distanza di tanti anni dai fatti, sappiamo che forse tutto era possibile. Il giudice Guido Salvini, autore della più ampia inchiesta sull'eversione d'estrema destra negli anni Sessanta e Settanta, al convegno sulla strage di piazza Fontana ospitato nei giorni scorsi dal Noir in Festival di Courmayeur ha raccontato un aneddoto che sgombra ogni dubbio in proposito. Due terroristi veneti, giunti a Milano per collocare due dei dieci ordigni d'agosto sui treni, dopo aver svolto il loro compito andarono in biglietteria, comprarono i biglietti e salirono di corsa sul primo treno per Padova con un solo desiderio: dileguarsi il piu' velocemente possibile. Verso mezzanotte furono svegliati da una potente detonazione proveniente da uno scompartimento vicino. Fu solo in quel momento che si accorsero di essere saliti, senza saperlo, su un treno dove avevano collocato uno dei loro ordigni. Di fronte a questo quadro composito, diventano sempre meno comprensibili i motivi che ancora oggi ci impediscono di commemorare la memoria delle vittime senza dividerci sulla natura dell'evento terroristico. Perchè non siamo in grado di giungere a una memoria condivisa, pur avvertendone l'esigenza?
Forse perché rimangono lati ancora oscuri? Se è così, si faccia uno sforzo per trovare una soluzione, e poi la si persegua fino in fondo, coraggiosamente, in modo bipartisan. Oppure è stata l'apposizione del segreto di stato a circoscrivere zone d'ombra che andrebbero finalmente diradate? Noi non lo crediamo. Disponiamo già di milioni di documenti, ed è più urgente l'esigenza di interpretarli che di accrescerne il volume. Ma se è questo il problema, o viene sentito come tale, si tolga il segreto di Stato e si aprano tutti gli archivi agli studiosi, primo tra tutti quello dell'Arma dei carabinieri, fino a oggi un santuario incomprensibilmente inviolabile. Carte di quarant'anni fa non possono certo contenere elementi atti a pregiudicare oggi la nostra sicurezza nazionale. Occorre individuare un metodo. Uno stile con cui ridefinire le questioni fondamentali, e diradare la nebbia. E uno stile nasce quando non si è più spaventati dagli errori commessi nel passato.
La destra che questo giornale in qualche modo rappresenta, di errori ne ha anche compiuti di fronte a quell'evento. Innegabili. Concorse in queste stesse pagine a indicare in Valpreda il mostro, quando nella peggiore delle ipotesi era un comprimario di scarsa importanza. Negò con veemenza che gli americani potessero aver giocato un ruolo, sposando un filoatlantismo che se poteva essere comprensibile dati i tempi, in fondo rinnegava una tradizione ideologica e politica in cui non c'era spazio per nessuna forma di sudditanza allo straniero. Aderiva a un anticomunismo viscerale che poteva diventare paravento e alibi di giochi pericolosi. Ecco, c'è oggi in noi questa manifesta esigenza di superare gli errori che abbiamo commesso, e riconoscere davanti a chi un tempo è stato nostro nemico gli errori che abbiamo commesso. Lungo la strada che porta ad una vera, autentica riconciliazione nazionale non resta che un ostacolo. Quello di chi ancora vuole usare la strage di quarant'anni fa per ergere muri e divisioni oggi insensate e dannose. Oggi è ragionevolmente arrivato il tempo di lasciarci alle spalle anche questo ostacolo.
Massimiliano Griner (Milano, 1970), laureato in filosofia della scienza con una tesi sui limiti della modellizzazione dei processi cognitivi, è sceneggiatore televisivo, giornalista e scrittore. Dopo aver esordito come narratore con Nel baco del calo del malo (Fernandel 1999), si è fatto conoscere come autore di apprezzati libri di storia contemporanea, tra cui La banda Koch (Bollati Boringhieri, 2000), Nell'ingranaggio. La scomparsa di Mauro De Mauro (Vallecchi, 2003), La pupilla del Duce. La legione autonoma mobile Ettore Muti (Bollati Boringhieri, 2004), I ragazzi del '36. L'avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola (Rizzoli, 2006).
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