Dal Secolo d'Italia di giovedì 10 dicembre 2009
Il recente servizio apparso sulle pagine culturali di Repubblica, e dedicato ai percorsi e al background di una nuova destra - lì definita - «libertaria e non autoritaria, riformatrice e non conservatrice, democratica e non populista», ha ricostruito per la prima volta in maniera filologica e documentata un lavorio metapolitico di oltre venticinque anni. Un sommario redazionale affiancato all'inchiesta, senz'altro motivato dalla rincorsa giornalistica ai cosiddetti pantheon intellettuali, potrebbe però aver ingenerato qualche equivoco tra i lettori e gli analisti. «Basta con Jünger e Carl Schmitt, sì a Camus e Hannah Arendt», si leggeva accanto a un altro periodo in cui si segnalava come, noi del Secolo ad esempio, ci poniamo da tempo al di fuori dei vecchi steccati ideologici, intendendo confrontarci e volendo individuare anche percorsi e sintesi comuni con chi svolge un analogo itinerario da sinistra. Ci dispiace quindi che l'autrice dell'articolo, Simonetta Fiori, non abbia potuto riportare tutto il ragionamento articolato da chi scrive, secondo il quale, se le sintonie con alcuni studiosi che vengono da una storia intellettuale di sinistra - Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Giacomo Marramao, Pietro Barcellona - provengono proprio dal comune riferimento agli autori che hanno determinato le rotture epistemologiche del Novecento - Nietzsche, Jünger o Schmitt, per citare tre nomi - il nostro interesse per questi stessi pensatori e scrittori si muove sottolineandone e valorizzandone la forte valenza libertaria.
Ecco perchè sbaglia completamente obiettivo Giuseppe Bedeschi, secondo cui - come scriveva ieri su Libero - la cosiddetta "nuova destra", «nonostante tutte le sussiegose professioni di democrazia che ci ha fatto ascoltare negli ultimi anni», sarebbe in realtà animata da un vecchio, profondo diprezzo per il liberalismo e la libertà. Alla società libera - aggiunge l'allievo di Lucio Colletti - noi vorremmo addirittura contrapporre un fantomatico «ordine nuovo, coeso e compatto, nel quale i giornalisti del Secolo d'Italia si troverebbero pienamente a loro agio con Alberto Asor Rosa e Mario Tronti». Ora, già nel 1982 lo storico e sociologo Giovanni Tassani, spiegava esattamente l'intuizione teorica da cui parte il lavorio di cui stiamo parlando: «Potrà una destra davvero essere nuova, al punto di essere: non gerarchica, non totalitaria, non conservatrice, non antimoderna, non patriottarda, non razzista, non classista?». E in questo percorso, cercando di delineare l'identikit dell'avversario filosofico, di questo orientamento, lo individuava proprio nel professor Lucio Colletti: «Sedicente ateo, materialista, occidentalista», neo-illuminista, critico antinovecentesco, avversario dichiarato di qualsiasi prospettiva post-illuminista e di tutta quella grande stagione - da lui e dai suoi definita di "anticapitalismo romantico" - nota ai più come "pensiero della crisi". Si tratta, per dirla tutta, della demonizzazione del grande filone culturale rilanciato dalla fine degli anni Settanta soprattutto dalla casa editrice Adelphi e che - da Nietzsche a Jünger, ma anche, per andare in senso lato, da Heidegger a Habermas - consente di interpretare adeguatamente, far proprio e quindi superare - senza liquidazionismi e scorciatoie "alla Popper" - il Novecento. Un filone però mai andato a genio a una certa scuola filosofica italiana - da Colletti, appunto, ai suoi allievi che trasversalmente vanno da Bedeschi a Flores d'Arcais - e che, nel 1995, ispirarono anche il seminario di San Martino al Cimino, fortemente voluto da questi ambienti in polemica con la destra politica radicata sulla cultura della crisi.È d'altronde in questo senso che noi leggiamo e interpretiamo anche autori come Ezra Pound, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Thomas Mann, Mircea Eliade... Oltretutto, abbiamo a suo tempo sottolineato la stessa lettura, fornita da Massimo Donà, dello Julius Evola «filosofo della libertà». Più volte abbiamo fatto riferimento al Pound «libertario» messo in evidenza da Giulio Giorello. Ai tratti genuinamente liberali (e libertari) dell'attualismo gentiliano rilevati da Salvatore Natoli e più di recente da Francesco Tomatis. O, per arrivare al cuore della questione, alla profonda, originaria - e teoricamente insuperabile - vocazione libertaria di Ernst Jünger, esplicitata nell'ultimo decennio da studiosi come Antonio Gnoli e il compianto Franco Volpi.
L'ultima conferma sull'ispirazione più propria del grande scrittore tedesco - morto a 103 anni del 1998 - ci viene adesso dalla pubblicazione in Italia di La capanna nella vigna (Guanda, pp. 279, € 20,00), un diario che raccoglie le impressioni quotidiane di Jünger dall'11 aprile del 1945 al 20 novembre del 1948. Sono gli anni della disfatta della Germania, della capitolazione, dei suicidi dei gerarchi hitleriani, dell'occupazione da parte delle potenze straniere, delle vendette, degli esuli, degli stupri, della fame... Insomma, la fine di un mondo. Jünger sta nella sua casa di campagna a Kirchhorst, coltiva l'orto, legge la Bibbia e le Mille e una notte, osserva la natura, riflette. Apprende via radio della morte di Mussolini, dello scempio di Piazzale Loreto, del suicidio di Hitler e dei Goebbels...
«L'importante per me resta il Singolo», spiegherà lo scrittore tedesco già ultracentenario intervistato da Antonio Gnoli e Franco Volpi nel bel libretto I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare del collettivismo e delle burocrazie spersonalizzanti si era espressa quasi tutta la sua produzione letteraria e filosofica a partire dall'apologo anti-totalitario Sulle scogliere di marmo del 1939. Ma già nel mezzo della seconda guerra mondiale, il libertarismo di Jünger diventa via via più esplicito. «Lo Stato rappresenta un costo non solo per i singoli, ma anche per i popoli», dirà in seguito. Ma anche in questo diario emergono pagine fortissime di attacco al totalitarismo. Ricorda, ad esempio, l'accozzaglia di «luoghi comuni» che scandiva i raduni di massa: «Era la stessa voce dei pubblicitari, delle macchine per vendere, che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili». La libertà, aggiunge, appartiene invece alla persona: «Il singolo - annota il 10 giugno '45 - può cambiare il mondo, con la sua azione o con la sua sofferenza, e può farlo in ogni momento. Egli è sovrano ed è sempre responsabile». Jünger tematizza la libertà e il suo risiedere nell'identità della persona: «Solo la vista del singolo può dischiudere - annota il 6 maggio del '45 - il dolore del mondo, perché un singolo può farsi carico del dolore di milioni di altri, può compensarlo, trasformarlo, dargli un senso. Rappresenta una barriera, una segreta inaccessibile, nel mondo di un mondo statistico, privo di qualità, plebiscitario, propagandistico, piattamente moralistico in cui la parola sacrificio turba gli animi».
L'attacco jüngeriano al cuore del totalitarismo è insuperabile e non si nasconde - siamo nella prima metà del 1945 - di fronte alla condanna dell'antisemitismo e dell'Olocausto. Lo scrittore incontra alcuni sopravvissuti ai lager: «L'impressione è di uno sconforto paralizzante, un sentimento che i loro discorsi trasmisero anche a me. Il carattere razionale, progredito della tecnica adottata nelle procedure getta sui processi una luce particolarmente cruda, in quanto emerge l'ininterrotta componente consapevole, meditata, scientifica che li ha determinati. Il segno dell'intenzione si imprime fin nei minimi dettagli, costituisce l'essenza del delitto». Jünger parla esplicitamente di scene degne di Caino e il suo giudizio è assai vicino a quello successivo di Hannah Arendt sulla "banalità del male". Parlando di Himmler infatti commenta: «Ciò che mi ha colpito di questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un'aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre un ispettore in prepensionamento. Tutto questo mette in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. È il progresso dell'astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere». Non a caso la stessa Arendt, qualche anno dopo, parlerà dei diari jüngeriani come «l'esempio migliore e più trasparente delle immani difficoltà a cui l'individuo si espone quando vuole conservare intatti i suoi valori».
Si tratta di riflessioni che Jünger continuerà negli anni Cinquanta e oltre. E non a caso un suo scritto - La ritirata nella foresta - apparirà, prima ancora di svilupparsi in un vero e proprio manuale di resistenza libertaria (tradotto in italiano come Il trattato del ribelle), sulla rivista statunitense Confluence nell'ambito di un seminario internazionale sulla minaccia totalitaria. Pubblicata in Italia nel '57 dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, l'antologia di quegli scritti vedrà, accanto a quello di Jünger, i nomi e le firme della stessa Arendt, di James Burnham e di Giorgio de Santillana. Un'ottima compagnia per uno scrittore di cui purtroppo si è sempre teso invece a sottolinearne solo gli aspetti estetizzanti. Il fatto, purtroppo, è che in Italia si è sempre avuto difficoltà a concepire una via postliberale e immaginifica alla libertà. Come spiegare, d'altronde, il fatto che in Italia si sia equivocato sulla figura jüngeriana del Waldgänger (alla lettera "l'uomo-che-si-dà-alla-macchia") con il termine di "ribelle" che evoca invece un atteggiamento conflittuale molto lontano dall'immagine che Jünger voleva suggerire?
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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