martedì 19 gennaio 2010

I giovani e l'etica della boxe in "Pugni" di Grossi e nei fumetti di Toffolo su Carnera

La lealtà si insegna sul ring
Dal Secolo d'Italia di martedì 19 gennaio 2010
«Ho preso tanti pugni nella mia vita. Ma lo rifarei perché tutti i cazzotti che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli». Così parlò Primo Carnera, il gigante friulano dai pugni devastanti ma dall’animo umano, troppo umano. Negli anni trenta conquistò il mondo a suon di cazzotti e Mussolini ne fece un’icona del fascismo. Il duce assisteva ai suoi match e lui ricambiava indossando la camicia nera. Gli antifascisti lo perdonarono, ma il campionissimo, che aveva sconfitto miseria e avversari, non era più invincibile. Sempre più ammaccato, ripiegò sul wrestiling e tornò a collezionare vittorie finché una cirrosi epatica lo mise definitivamente al tappeto: era il ’67 e aveva solo sessant’anni.
Una vita da romanzo, la sua biografia. E in un romanzo, a fumetti, l’ha scritta e disegnata Davide Toffolo (Pordenone, ’65), autore tra i più rappresentativi delle nostre nuvole parlanti e conterraneo del grande pugile italiano. L’opera di Toffolo, pubblicata per la prima volta in volume nel 2001 con il titolo di Carnera, la montagna che cammina, è tornata nei giorni scorsi in edicola nella bella collana settimanale “100 anni di fumetto italiano”, giunta con Carnera al suo 16esimo numero. Occorre affrettarsi, perché vale davvero la pena riscoprire – attraverso le sue gesta, tratteggiate dall’autore in bianco, nero e giallo dorato – uno sport liquidato troppo spesso come violento e nel quale, invece, sopravvivono valori che sembrano perduti: l’etica del sacrificio, il senso dell’onore, la lealtà, la dignità nella sconfitta. Sì, perché la boxe, soprattutto per i giovani che la praticano, è anche un rito di iniziazione alla vita. L’avversario non è solo quello che ti trovi davanti, ma te stesso. In quelle palestre pregne di odore di corpi sudati e sui ring dove tanti dilettanti se le danno di santa ragione ma onestamente, ci si attrezza per ritagliarsi un posto nel mondo.
«Guardiamoci negli occhi, a me ‘sta faccenda della boxe piaceva parecchio. Non so cos’era, se quel senso di sicurezza o la consapevolezza che facevo qualcosa come si deve. Forse tutt’e due, forse anche la formidabile sensazione che c’era un luogo dove avevo qualche numero, o dove comunque potevo battermi ad armi pari». È l’incipit di Pugni (Sellerio 2009, p. 216, € 8), lo splendido racconto – il primo di tre – che dà il titolo a questo libro del fiorentino Pietro Grossi, classe ’78 (nella foto in alto). Pubblicato per la prima volta nel 2006, ebbe un tale successo che arrivò persino in finale nel premio Strega. «Là dentro – continua – nessuno poteva scappare, sapevi contro chi combattevi, ed era sempre uno solo, e pesava quanto te, e se ti batteva voleva dire che era più bravo, o aveva più esperienza, e in entrambi i casi dalla sconfitta non avevi che da imparare. Sembra assurdo, ma finisce che vai in quel posto dove tutti menano le mani per sentirti più al sicuro».
La voce narrante è quella del “Ballerino”: un ragazzo timido fino alla goffaggine – «Là fuori mi prendevano tutti in giro, dicevo sempre la cosa sbagliata, e non avevo né ragazza né motorino» – che troverà proprio nella boxe la “via” per riappropriarsi della propria esistenza. Con la sua leggerezza da libellula sul quadrato diventa in breve una leggenda. Ne parlano tutti, anche i suoi compagni di scuola, mai immaginando che quella luminosa promessa della boxe, di cui nessuno sa il nome, è in realtà lo sfigato della classe. La madre gli vieta di fare combattimenti ufficiali e del resto nessuno oserebbe sfidarlo. Fino a quando non arriva la “Capra”: «È povero, è sordo e non riuscire a sentire le voci lo ha escluso dal mondo, combatte con una testarda determinazione ed è un campione che scala la vittoria come le capre i burroni, ma vuole sapere se veramente è lui il più forte». Stavolta non può tirarsi indietro. «Mi resi conto d’un tratto che eravamo della stessa razza, due ragazzetti sfigati emarginati che lottavano per la vita, per quel brandello quadrato e sporco di realtà». Se fino a quel momento il Ballerino dava per scontato un futuro da campionissimo, improvvisamente deve misurarsi con i propri limiti: «La Capra non era più quel ragazzo sordo, era la vita stessa, che mi aveva preso e portato fuori da quel mondo di balocchi». Chi perderà, non soltanto avrà il coraggio di ammetterlo, ma addirittura spedirà al vincitore le medaglie che conquisterà in seguito. Il finale, però, lo riserviamo ai lettori.
«Nel ramo dei cazzotti fa bene darne ma è persino meglio perderne», assicura Grossi, che ha praticato per tanti anni pugilato e Kickboxing. «Ho letto molto sulla boxe, Jack London, Hemingway, ma non solo – ci dice – e credo che il pugilato sia un teatro perfetto per raccontare delle storie interessanti. È raro infatti trovare una zona altrettanto circoscritta che consenta di mettere alla prova dei confronti, insieme così estremi ed eleganti». Non solo boxe, perché Grossi ha confermato di avere talento nella sua opera più recente, L’acchito (Sellerio 2007, p. 200 € 12). L’acchito è il colpo d’inizio nel biliardo: la stecca colpisce la palla adagiata sul panno e ciò che era immobile inizia a muoversi. Dino, il protagonista, si affida alle eterne geometrie del biliardo e a un lavoro sempre uguale nell’illusione di governare la propria vita, tenendo lontano il nulla. Nulla che, suo malgrado, piomberà nella sua quotidianità, rendendo vana quella rassicurante pace che credeva di aver conquistato. Perché non sempre è possibile, come accade nella boxe, «avere un nemico leale, un buon nemico in cui rispecchiarsi e sfidare e affrontare se stessi, senza pericoli di tradimenti, senza il rischio di morire spiritualmente nello scontro».

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