domenica 17 gennaio 2010

Il sogno di Susan Boyle, continua senza sorprese. Ma con troppi "violini"... (Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 17 gennaio
La storia di Susan Boyle è commovente, anche troppo. Il suo primo album è accattivante, anche troppo. Cominciamo dalla storia, ammesso che non la conosciate già o non ve la ricordiate a puntino. Nell'aprile dello scorso anno lei si presenta allo show televisivo Britain's Got Talent, che è una via di mezzo tra la Corrida e X-Factor, e nel giro di tre minuti passa dal disastro annunciato al trionfo assoluto. Quando fa la sua comparsa sul palco sembra una vittima predestinata: è goffa, sgraziata, malvestita, l'esatto contrario di ciò si è abituati a collegare al mondo dello spettacolo e, in particolare, alla sua variante televisiva.
I tre bellimbusti della giuria (Mr. Piers Morgan, giornalista, Miss Amanda Holden, attrice, e Mr. Simon Cowell, produttore discografico e televisivo) la osservano con un'aria tra il perplesso e lo schifato, come un rottame che sia capitato per sbaglio in un autosalone e che, perbacco, andrebbe rimosso al più presto. Poi, visto che ormai è lì e che in ogni caso non è possibile liberarsene all'istante, si divertono a giocarci come farebbero dei monelli-aspiranti-teppisti: le tirano addosso quello che hanno sotto mano. Domandine apparentemente innocue. Richieste del tutto ordinarie, prese in se stesse, che nel caso specifico si trasformano in trabocchetti. «Come mai sei qui, Susan?». «Perché vorrei diventare una cantante professionista». «E com'è che non ci sei già riuscita, Susan?». «Perché non ne ho mai avuto l'occasione». I tre non fanno nessun commento, ma solo perché sanno che in televisione non serve. Basta accennare un sorriso di scherno, in televisione. Basta inarcare un sopracciglio. O volgere un attimo gli occhi al cielo. Oppure mostrarsi fin troppo seri e interessati, mentre questa malcapitata che arriva dalla provincia scozzese e che ha 48 anni, decisamente mal portati, non esita ad affermare che vorrebbe «diventare come Elaine Page», che di anni ne ha 61 e che, da superstar del musical con tre decenni di successi alle spalle, è tuttora curatissima.
Fine dei convenevoli. Lei annuncia il brano che canterà e loro, così come il pubblico in sala e quello a casa, si pregustano l'epilogo, su cui chiunque scommetterebbe a cuor leggero. Nessun dubbio: questa qui è la classica donnetta di mezz'età che controbilancia la sua squallida routine quotidiana con qualche sogno a occhi aperti. Chissà come, chissà quando, si è convinta di avere delle doti canore e di essere una professionista mancata. Va' a capire: non ti dice niente, Susan, il fatto che non hai mai concluso un fico secco, finora?
La musica che parte è maestosa. Le prime increspature di una grande ondata nella quale un surfista provetto può trovare l'apoteosi. E un principiante annegare. Susan Boyle resta immobile. Forse è talmente persa nel suo mondo fantastico da non rendersi conto di quello che sta per accadere. Di quello che le sta per accadere. Lo sguardo è concentrato in modo quasi comico. Una bimbetta impacciata che controlla che nella sua mente ci siano ancora, là dove li aveva lasciati, tutti i versi della poesia che ha dovuto imparare a memoria. I dieci secondi dell'introduzione strumentale volgono al termine. Lei si concede l'accenno di un sorriso. E finalmente... Appena apre bocca, e comincia a intonare la melodia avvincente e i versi toccanti di I Dreamed a Dream (dal musical tratto da I miserabili), la situazione si ribalta: tanto l'aspetto fisico è dimesso, tanto la voce è splendida. L'involucro è quello che è. Il contenuto risplende come cristallo. Tanto più incantevole perché inaspettato. Tanto più abbagliante perché illuminato all'improvviso, nella penombra di una debacle che sembrava incombente, e inevitabile.
Il seguito è la chiave di volta della storia commovente che ricordavamo all'inizio. I tre "semidei" della giuria che scendono tra i comuni mortali e si mostrano non soltanto sorpresi ma addirittura emozionati, in attesa di fare esplicita ammenda della loro sciocca sicumera. Il pubblico che prima applaude e poi si alza in piedi in una standing ovation nella quale si confondono l'ammirazione e l'empatia. E lei cosa fa? Manda un bacio all'uditorio e gira i tacchi per uscire. Thank you and goodbye. Non speravo tanto. Non vorrei svegliarmi di colpo. Vedete? Esco dal sogno da sola. Prima che succeda qualcosa di sbagliato che mandi tutto in malora.
L'hanno fermata, ovviamente. L'hanno richiamata indietro. I semidei si sono scusati, si sono complimentati, le hanno restituito a piene mani tutta la stima e la simpatia che le avevano negato all'inizio. E hanno ufficializzato, come no, la sua ammissione alla semifinale, in cui lei avrebbe poi cantato Memory, dal celeberrimo Cats di Andrew Lloyd-Webber, e da cui avrebbe spiccato il volo per la finalissima, che non ha vinto ma che le ha comunque consentito, complice il tam-tam su youtube e l'interessamento dei media, di ottenere quel contratto discografico che l'ha trasformata a tutti gli effetti in una cantante di professione.
Il cd di esordio - che manco a dirlo si intitola I Dreamed a Dream - è uscito alla fine di novembre e, com'era logico aspettarsi, ha venduto rapidamente alcuni milioni di copie, soprattutto sui mercati di lingua inglese. Prodotto dal succitato Simon Cowell e da Steve Mac, è una sorta di "instant album" che mira a monetizzare nel modo più massiccio e tempestivo la travolgente popolarità di Susan, esaltandone le qualità melodiche. Grande spazio alle cover, quindi, e un unico inedito. Brani più o meno famosi che pescano un po' dappertutto, sia come genere che come epoca, ma che poi vengono inesorabilmente omologati in sede di arrangiamento, con quantità esorbitanti di violini e di ogni altro trucco del sentimentalismo sonoro a buon mercato. Poco male, finché tocca a You'll See di Madonna o a Daydream Believer dei Monkees, ma inaccettabile quando si va a inzuccherare - e proprio in apertura, per di più - una ballata magnificamente e definitivamente rock come la Wild Horses degli Stones.
Tant'è. Un cantante, di base, è solo un interprete, al servizio di un progetto altrui. E figuriamoci se può essere una come Susan Boyle, strappata per miracolo all'anonimato in cui viveva, a puntare i piedi per chiedere qualcosa in più. Sempre ammesso che sia in grado di immaginarselo, del resto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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