Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 3 gennaio 2009
Massima abbondanza: ma di cosa? L’inventario di fine decennio porta cattive notizie, sciorinando anche in ambito musicale la tipica contraddizione delle società occidentali: si produce troppo e, troppo spesso, senza nessun altro scopo che non sia la moltiplicazione delle vendite e dei profitti; si consuma più per forza di inerzia che per un bisogno autentico o un appetito schietto. Si sforna di tutto tranne quello che ci servirebbe davvero. Per forza: non ci ricordiamo più che cos’era. Circondati da ogni tipo di risposta non ci ricordiamo più le domande fondamentali. E siamo talmente indaffarati a sfogliare il catalogo del superfluo da non avere più tempo per provare a ricordarcele.
Il bilancio di Simon Reynolds, esperto inglese di fama mondiale e autore di studi assai approfonditi come Post-punk 1978-1984 e Hip-hop-rock 1985-2008, è impietoso: “La verità scoraggiante è questa: il decennio pop che volge al termine è stato un passaggio a vuoto. Il musicista e critico musicale Momus ha di recente dichiarato che il pop è uno dei fenomeni di fatto superati, finiti. (Gli altri sono la televisione, il telefono e la democrazia)”. I primi dieci anni del nuovo millennio, dunque, avrebbero segnato un arretramento a tutto campo. Non solo non c’è stata nessuna innovazione capace di ergersi ad architrave di una nuova tendenza, espressiva o addirittura sociale, ma a uscire ridimensionato, in modo forse definitivo, è il ruolo stesso della musica nella vita degli ascoltatori. Prosegue Reynolds: «Siamo probabilmente testimoni di un equivalente culturale e musicale della crisi ecologica, della finitezza delle risorse del pop, un’arena sfruttata fino all’esaurimento». Troppa musica, quindi? Troppa facilità nel reperirla, innanzitutto tramite Internet, e nell’ascoltarla ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, grazie agli i-pod sempre più capienti che permettono di stoccare e di portare con sé l’equivalente di decine e decine di album? L’eccesso di abbondanza che genera assuefazione e scarso coinvolgimento, se non proprio un sostanziale disinteresse?
Per Reynolds è così: il risultato finale dell’eccesso di disponibilità è «sentirsi sazi e tuttavia vuoti». Si può fare di tutto, accumulando quantità esorbitanti di musica e di immagini (persino gratuitamente, se non si hanno scrupoli riguardo al download illegale), ma nell’ansia di non perdere nulla ci si dimentica che la soddisfazione presuppone un desiderio, e che il desiderio ha bisogno di un certo tempo per svilupparsi quanto basta a trasformare il seme del capriccio in un frutto succoso e degno di essere spremuto. Quella che è venuta meno è una corretta alternanza tra la fase dell’attesa, che permette a una determinata aspettativa non solo di ingrandirsi ma anche di plasmarsi in funzione delle nostre esigenze profonde, e quella della realizzazione, che per essere davvero gratificante deve corrispondere a un bisogno radicato – sia pure inconscio. Anzi: soprattutto inconscio.
Ascoltare solo ciò che si vuole equivale a restare in superficie, privandosi della possibilità di sperimentare sollecitazioni diverse e di svelare, attraverso nuovi interessi e nuove passioni, degli aspetti di sé che in precedenza si ignoravano. È come leggere sempre lo stesso libro, quand’anche bellissimo, o andare sempre in vacanza nel medesimo luogo, quand’anche splendido. La carezza rassicurante della conferma al posto dell’amplesso selvaggio della scoperta. Versione indulgente: nessuna sorpresa, nessuna delusione. Versione intelligente: nessuna sorpresa, nessuna rivelazione. Il primo passo, sulla china dell’auto anestesia, sono stati i network radiofonici all’insegna dei “grandi successi”. Una promessa e un impegno: tempo due o tre brani (al massimo!) e sentirai una delle tue canzoni preferite; e nel frattempo – credi a noi, che siamo amici tuoi – anche le altre le troverai assolutamente familiari e, quindi, assolutamente gradevoli. Il secondo passo sono stati gli i-pod: l’idea, il piacere, il potere di riempirli con tutti i pezzi prediletti, come un juke-box solo nostro e a costo zero. L’ultima accelerazione, iper tecnologica, è la “radio” personalizzata che permette di ricevere on-line una sequenza illimitata di canzoni che possiamo anche non avere mai sentito ma che, meraviglia-delle-meraviglie, sono strutturate in modo affine a quelle che adoriamo, grazie a un algoritmo elaborato ad hoc e ricavato dalle nostre segnalazioni iniziali.
È qui che passa la frontiera tra arte e intrattenimento, al di là di qualunque valutazione formale e di qualsiasi giudizio estetico. L’arte mette le emozioni al servizio di una possibile espansione della conoscenza e della consapevolezza; l’intrattenimento mantiene (trattiene!) all’interno del consueto habitat psicologico e concettuale. L’arte può anche non esplicitare nessun messaggio, limitandosi a far affiorare delle componenti che erano rimaste sepolte in aree irraggiungibili dell’Io, ma il fatto stesso di suscitare delle reazioni non ordinarie la rende stimolante, se non educativa. L’intrattenimento può anche affermare messaggi condivisibili, ma ripetendoli a oltranza li banalizza, li indebolisce, e infine li svuota, persino nei casi in cui a tirare i fili non ci siano i manager dell’industria dello spettacolo.
La musica “pop” è diventata davvero importante, nella vita delle persone, solo a cominciare dagli anni Cinquanta, con l’avvento del rock’n’roll e con l’emergere dei giovani come soggetto autonomo, con un proprio immaginario e con un progetto di vita diverso da quello degli adulti. Quella musica liberava energie nascoste, e liberandole le nutriva, le confortava, le rendeva vicendevolmente palesi. Vicendevolmente reali. Quella musica era, allo stesso tempo, un linguaggio e un’esperienza. Una certezza e un auspicio. Un elemento di identità da rivendicare al presente e una speranza confusa da inseguire nel futuro. Una difesa collettiva, come il recinto di un villaggio tribale, e un sogno individuale, come il rito solitario di uno sciamano.
È questo, ciò che è cambiato. A poco a poco i giovani sono tornati a essere adulti in sedicesimo. La musica è tornata a essere intrattenimento. Roba che magari si vende a carrettate, ma che ha ben poco di memorabile. Merce, come si dice, di consumo.
Il bilancio di Simon Reynolds, esperto inglese di fama mondiale e autore di studi assai approfonditi come Post-punk 1978-1984 e Hip-hop-rock 1985-2008, è impietoso: “La verità scoraggiante è questa: il decennio pop che volge al termine è stato un passaggio a vuoto. Il musicista e critico musicale Momus ha di recente dichiarato che il pop è uno dei fenomeni di fatto superati, finiti. (Gli altri sono la televisione, il telefono e la democrazia)”. I primi dieci anni del nuovo millennio, dunque, avrebbero segnato un arretramento a tutto campo. Non solo non c’è stata nessuna innovazione capace di ergersi ad architrave di una nuova tendenza, espressiva o addirittura sociale, ma a uscire ridimensionato, in modo forse definitivo, è il ruolo stesso della musica nella vita degli ascoltatori. Prosegue Reynolds: «Siamo probabilmente testimoni di un equivalente culturale e musicale della crisi ecologica, della finitezza delle risorse del pop, un’arena sfruttata fino all’esaurimento». Troppa musica, quindi? Troppa facilità nel reperirla, innanzitutto tramite Internet, e nell’ascoltarla ovunque, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, grazie agli i-pod sempre più capienti che permettono di stoccare e di portare con sé l’equivalente di decine e decine di album? L’eccesso di abbondanza che genera assuefazione e scarso coinvolgimento, se non proprio un sostanziale disinteresse?
Per Reynolds è così: il risultato finale dell’eccesso di disponibilità è «sentirsi sazi e tuttavia vuoti». Si può fare di tutto, accumulando quantità esorbitanti di musica e di immagini (persino gratuitamente, se non si hanno scrupoli riguardo al download illegale), ma nell’ansia di non perdere nulla ci si dimentica che la soddisfazione presuppone un desiderio, e che il desiderio ha bisogno di un certo tempo per svilupparsi quanto basta a trasformare il seme del capriccio in un frutto succoso e degno di essere spremuto. Quella che è venuta meno è una corretta alternanza tra la fase dell’attesa, che permette a una determinata aspettativa non solo di ingrandirsi ma anche di plasmarsi in funzione delle nostre esigenze profonde, e quella della realizzazione, che per essere davvero gratificante deve corrispondere a un bisogno radicato – sia pure inconscio. Anzi: soprattutto inconscio.
Ascoltare solo ciò che si vuole equivale a restare in superficie, privandosi della possibilità di sperimentare sollecitazioni diverse e di svelare, attraverso nuovi interessi e nuove passioni, degli aspetti di sé che in precedenza si ignoravano. È come leggere sempre lo stesso libro, quand’anche bellissimo, o andare sempre in vacanza nel medesimo luogo, quand’anche splendido. La carezza rassicurante della conferma al posto dell’amplesso selvaggio della scoperta. Versione indulgente: nessuna sorpresa, nessuna delusione. Versione intelligente: nessuna sorpresa, nessuna rivelazione. Il primo passo, sulla china dell’auto anestesia, sono stati i network radiofonici all’insegna dei “grandi successi”. Una promessa e un impegno: tempo due o tre brani (al massimo!) e sentirai una delle tue canzoni preferite; e nel frattempo – credi a noi, che siamo amici tuoi – anche le altre le troverai assolutamente familiari e, quindi, assolutamente gradevoli. Il secondo passo sono stati gli i-pod: l’idea, il piacere, il potere di riempirli con tutti i pezzi prediletti, come un juke-box solo nostro e a costo zero. L’ultima accelerazione, iper tecnologica, è la “radio” personalizzata che permette di ricevere on-line una sequenza illimitata di canzoni che possiamo anche non avere mai sentito ma che, meraviglia-delle-meraviglie, sono strutturate in modo affine a quelle che adoriamo, grazie a un algoritmo elaborato ad hoc e ricavato dalle nostre segnalazioni iniziali.
È qui che passa la frontiera tra arte e intrattenimento, al di là di qualunque valutazione formale e di qualsiasi giudizio estetico. L’arte mette le emozioni al servizio di una possibile espansione della conoscenza e della consapevolezza; l’intrattenimento mantiene (trattiene!) all’interno del consueto habitat psicologico e concettuale. L’arte può anche non esplicitare nessun messaggio, limitandosi a far affiorare delle componenti che erano rimaste sepolte in aree irraggiungibili dell’Io, ma il fatto stesso di suscitare delle reazioni non ordinarie la rende stimolante, se non educativa. L’intrattenimento può anche affermare messaggi condivisibili, ma ripetendoli a oltranza li banalizza, li indebolisce, e infine li svuota, persino nei casi in cui a tirare i fili non ci siano i manager dell’industria dello spettacolo.
La musica “pop” è diventata davvero importante, nella vita delle persone, solo a cominciare dagli anni Cinquanta, con l’avvento del rock’n’roll e con l’emergere dei giovani come soggetto autonomo, con un proprio immaginario e con un progetto di vita diverso da quello degli adulti. Quella musica liberava energie nascoste, e liberandole le nutriva, le confortava, le rendeva vicendevolmente palesi. Vicendevolmente reali. Quella musica era, allo stesso tempo, un linguaggio e un’esperienza. Una certezza e un auspicio. Un elemento di identità da rivendicare al presente e una speranza confusa da inseguire nel futuro. Una difesa collettiva, come il recinto di un villaggio tribale, e un sogno individuale, come il rito solitario di uno sciamano.
È questo, ciò che è cambiato. A poco a poco i giovani sono tornati a essere adulti in sedicesimo. La musica è tornata a essere intrattenimento. Roba che magari si vende a carrettate, ma che ha ben poco di memorabile. Merce, come si dice, di consumo.
Consigli per l'ascolto (clicca!)
Wilco - I Am Trying to Break Your Heart [6:58] 02) Kamera [3:30]
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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