Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 10 gennaio 2009
Quasi sicuramente, ormai, dovrete cominciare dalla fine. Se mai comincerete. Avrete appreso della morte di Vic Chesnutt – avvenuta a soli 45 anni, per un’overdose di farmaci che forse è stata volontaria e forse no, e che ha avuto luogo proprio il 25 dicembre (“come in un libro scritto male”, per dirla col Guccini di Incontro) – e nelle pieghe della commemorazione ci sarà stata, forse, un’espressione abbastanza efficace da superare gli ostacoli dell’omaggio di circostanza e da instillarvi almeno un accenno di curiosità. Quindici album e non averne mai ascoltato nemmeno un frammento, neppure un singolo istante?
L’ultimo a sorprendersi sarebbe stato lui stesso. Aveva imparato sulla sua pelle che la vita è uno strano viaggio che asseconda ben pochi desideri e che si affronta meglio con un bagaglio ridotto all’osso. Uno strano viaggio che scompiglia qualunque programma – se si è così incauti da farne e da prenderli troppo sul serio, fino a confonderli col proprio destino – e che o prima o dopo ti chiederà conto di ogni stramaledetta aspettativa che custodivi (nascondevi) nel cuore. Lui lo avevano fermato quasi subito, i doganieri del Fato: ad appena diciotto anni, mentre guidava ubriaco, era uscito di strada ed era rimasto paralizzato. Bravo pirla. Povero ragazzo. Tanti altri lo fanno e non succede niente. Qualcuno paga per tutti, ogni tanto. È toccata a te, Vic. Ti sveglierai e la giovinezza sarà finita per sempre. Sedia a rotelle, per sempre. Dolori, per sempre. Limitazioni, per sempre.
Vic suonava già la chitarra, allora. Non è che avesse chissà quali ambizioni da artista. Però aveva appreso da suo nonno il piacere di giocare con le note e di vedere cosa succede, a mischiare un po’ le carte. Se guardi in un solo modo è una routine. Se cambi prospettiva è una giostra. Prima solo cocci di vetro. Adesso, di colpo, un caleidoscopio. Vic ci si diverte. Insiste. Sperimenta. Cresce. «Suonavo in una maniera molto diversa, prima dell’incidente. Nelle mie canzoni c’erano un mucchio di accordi strani e di altre cose, ma in realtà non avevo niente da dire, all’epoca. Fu soltanto dopo che mi spezzai il collo e dopo un altro anno ancora che cominciai a capire che avevo qualcosa da esprimere. E sul piano fisico, quando fui in grado di ricominciare a suonare la chitarra, compresi che tutto quello che potevo fare erano solo gli accordi più semplici. E se doveva essere così, beh, è così che avrei fatto».
Le lesioni non avevano colpito solo le gambe. Sia pure in modo assai meno grave avevano danneggiato anche le braccia e le mani, e la stessa funzione respiratoria. A 19 anni il futuro cantautore Vic Chesnutt si ritrovò imbottigliato in una situazione paradossale: il suo talento stava appena sbocciando ed era destinato a irrobustirsi; il suo corpo aveva subìto guasti irreparabili e in futuro avrebbe potuto solo peggiorare. Era come un pittore costretto a dipingere con una tavolozza spezzata, su cui sono rimasti solo i colori primari, e con scarse possibilità di amalgama. Un pittore ancora sconosciuto che deve farsi valere, e notare, utilizzando quel po’ di tinte che gli sono rimaste e rinunciando, ancora prima di mettersi all’opera, a immaginare qualsiasi cosa che vada al di là del mezzi limitati di cui dispone. Qui ci starebbe bene una sfumatura di verde smeraldo: e invece c’è solo questo verde standardizzato. Qui ci vorrebbe un accordo “jazzy”: e invece c’è solo un accordo ordinario.
Eppure non si nota affatto, se non lo sai. L’impressione è quella di un linguaggio essenziale ma tutt’altro che dimesso. Il tipo di povertà, a suo modo benedetta, che induce a essere sobri ma che non ha nulla a che spartire con la miseria. Il tipo di canzoni che scrivi perché hai bisogno di scriverle, senza chiederti nemmeno lontanamente se sono adatte a essere trasformate in un prodotto da vendere. Non nascono per essere ammirate. Nascono perché le mani di un musicista sono fatte così: andrebbero in cerca di musica, sulla tastiera di una chitarra o su quella di un pianoforte, su uno Stradivari da collezione o su un’armonica da quattro soldi, anche su un’isola deserta. Le labbra di un poeta sono fatte così: tirano su le parole dal foglio e le fanno risuonare nella realtà. Le osservano mentre si adagiano daccapo sulla pagina e sperano (sognano) che qualcuno le raccolga a sua volta e trovi il modo giusto di pronunciarle. Il modo giusto di cantarle. Potrebbe essere difficile. Potrebbe essere bellissimo.
Vic Chesnutt non è mai diventato davvero famoso, nonostante il supporto di Michael Stipe, il cantante dei REM che lo scoprì al “40 Watt Club” di Athens e che produsse i suoi primi due album, e quello di altri artisti affermati, dagli Smashing Pumpkins a Madonna, che nel 1996 gli dedicarono una raccolta di cover intitolata Sweet Relief II: Gravity of the Situation. Ed è improbabile che lo sarebbe mai diventato, anche se fosse vissuto ancora a lungo. Le sue canzoni sono affascinanti e per nulla ostiche, ma purtroppo – o per fortuna – non possiedono l’immediatezza dei pezzi che si impongono fin dal primo ascolto e che spingono il grande pubblico all’acquisto. Non è musica di sottofondo. Non sono atmosfere nelle quali si può entrare distrattamente, per uscirne subito dopo e non pensarci più.
Vic Chesnutt era un uomo che soffriva, e che sapeva benissimo che la sua sofferenza non se ne sarebbe mai andata. Non è che si compiangesse, ma non faceva nemmeno finta che le cose fossero diverse da quelle che erano. La vita è un dato di fatto. Il suicidio è una via d’uscita. In passato ci aveva provato a più riprese e ne parlava con franchezza. Nel penultimo album, l’eccellente At the Cut, c’è un brano che si chiama Flirted With You All My Life. All’inizio sembra una canzone d’amore. In realtà parla del suo rapporto con la morte. “Dovunque vado / tu sei sempre qui con me / Ho flirtato con te per tutta la mia vita / Ti ho anche baciata, una volta o due / Oh, morte: non sono pronto / Chiaramente non sono pronto”.
È come un viaggio. A volte lo prepari con cura. Altre volte decidi di partire all’improvviso. Non sei ancora pronto – no che non lo sei – ma ti sei stancato di aspettare. Pensi che da questa parte del mondo è inverno. Pensi che ne hai abbastanza, di tutto questo maledetto freddo che non accenna a svanire.
L’ultimo a sorprendersi sarebbe stato lui stesso. Aveva imparato sulla sua pelle che la vita è uno strano viaggio che asseconda ben pochi desideri e che si affronta meglio con un bagaglio ridotto all’osso. Uno strano viaggio che scompiglia qualunque programma – se si è così incauti da farne e da prenderli troppo sul serio, fino a confonderli col proprio destino – e che o prima o dopo ti chiederà conto di ogni stramaledetta aspettativa che custodivi (nascondevi) nel cuore. Lui lo avevano fermato quasi subito, i doganieri del Fato: ad appena diciotto anni, mentre guidava ubriaco, era uscito di strada ed era rimasto paralizzato. Bravo pirla. Povero ragazzo. Tanti altri lo fanno e non succede niente. Qualcuno paga per tutti, ogni tanto. È toccata a te, Vic. Ti sveglierai e la giovinezza sarà finita per sempre. Sedia a rotelle, per sempre. Dolori, per sempre. Limitazioni, per sempre.
Vic suonava già la chitarra, allora. Non è che avesse chissà quali ambizioni da artista. Però aveva appreso da suo nonno il piacere di giocare con le note e di vedere cosa succede, a mischiare un po’ le carte. Se guardi in un solo modo è una routine. Se cambi prospettiva è una giostra. Prima solo cocci di vetro. Adesso, di colpo, un caleidoscopio. Vic ci si diverte. Insiste. Sperimenta. Cresce. «Suonavo in una maniera molto diversa, prima dell’incidente. Nelle mie canzoni c’erano un mucchio di accordi strani e di altre cose, ma in realtà non avevo niente da dire, all’epoca. Fu soltanto dopo che mi spezzai il collo e dopo un altro anno ancora che cominciai a capire che avevo qualcosa da esprimere. E sul piano fisico, quando fui in grado di ricominciare a suonare la chitarra, compresi che tutto quello che potevo fare erano solo gli accordi più semplici. E se doveva essere così, beh, è così che avrei fatto».
Le lesioni non avevano colpito solo le gambe. Sia pure in modo assai meno grave avevano danneggiato anche le braccia e le mani, e la stessa funzione respiratoria. A 19 anni il futuro cantautore Vic Chesnutt si ritrovò imbottigliato in una situazione paradossale: il suo talento stava appena sbocciando ed era destinato a irrobustirsi; il suo corpo aveva subìto guasti irreparabili e in futuro avrebbe potuto solo peggiorare. Era come un pittore costretto a dipingere con una tavolozza spezzata, su cui sono rimasti solo i colori primari, e con scarse possibilità di amalgama. Un pittore ancora sconosciuto che deve farsi valere, e notare, utilizzando quel po’ di tinte che gli sono rimaste e rinunciando, ancora prima di mettersi all’opera, a immaginare qualsiasi cosa che vada al di là del mezzi limitati di cui dispone. Qui ci starebbe bene una sfumatura di verde smeraldo: e invece c’è solo questo verde standardizzato. Qui ci vorrebbe un accordo “jazzy”: e invece c’è solo un accordo ordinario.
Eppure non si nota affatto, se non lo sai. L’impressione è quella di un linguaggio essenziale ma tutt’altro che dimesso. Il tipo di povertà, a suo modo benedetta, che induce a essere sobri ma che non ha nulla a che spartire con la miseria. Il tipo di canzoni che scrivi perché hai bisogno di scriverle, senza chiederti nemmeno lontanamente se sono adatte a essere trasformate in un prodotto da vendere. Non nascono per essere ammirate. Nascono perché le mani di un musicista sono fatte così: andrebbero in cerca di musica, sulla tastiera di una chitarra o su quella di un pianoforte, su uno Stradivari da collezione o su un’armonica da quattro soldi, anche su un’isola deserta. Le labbra di un poeta sono fatte così: tirano su le parole dal foglio e le fanno risuonare nella realtà. Le osservano mentre si adagiano daccapo sulla pagina e sperano (sognano) che qualcuno le raccolga a sua volta e trovi il modo giusto di pronunciarle. Il modo giusto di cantarle. Potrebbe essere difficile. Potrebbe essere bellissimo.
Vic Chesnutt non è mai diventato davvero famoso, nonostante il supporto di Michael Stipe, il cantante dei REM che lo scoprì al “40 Watt Club” di Athens e che produsse i suoi primi due album, e quello di altri artisti affermati, dagli Smashing Pumpkins a Madonna, che nel 1996 gli dedicarono una raccolta di cover intitolata Sweet Relief II: Gravity of the Situation. Ed è improbabile che lo sarebbe mai diventato, anche se fosse vissuto ancora a lungo. Le sue canzoni sono affascinanti e per nulla ostiche, ma purtroppo – o per fortuna – non possiedono l’immediatezza dei pezzi che si impongono fin dal primo ascolto e che spingono il grande pubblico all’acquisto. Non è musica di sottofondo. Non sono atmosfere nelle quali si può entrare distrattamente, per uscirne subito dopo e non pensarci più.
Vic Chesnutt era un uomo che soffriva, e che sapeva benissimo che la sua sofferenza non se ne sarebbe mai andata. Non è che si compiangesse, ma non faceva nemmeno finta che le cose fossero diverse da quelle che erano. La vita è un dato di fatto. Il suicidio è una via d’uscita. In passato ci aveva provato a più riprese e ne parlava con franchezza. Nel penultimo album, l’eccellente At the Cut, c’è un brano che si chiama Flirted With You All My Life. All’inizio sembra una canzone d’amore. In realtà parla del suo rapporto con la morte. “Dovunque vado / tu sei sempre qui con me / Ho flirtato con te per tutta la mia vita / Ti ho anche baciata, una volta o due / Oh, morte: non sono pronto / Chiaramente non sono pronto”.
È come un viaggio. A volte lo prepari con cura. Altre volte decidi di partire all’improvviso. Non sei ancora pronto – no che non lo sei – ma ti sei stancato di aspettare. Pensi che da questa parte del mondo è inverno. Pensi che ne hai abbastanza, di tutto questo maledetto freddo che non accenna a svanire.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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