sabato 13 febbraio 2010

Come per i tibetani, la luce bianca ha "salutato" Pio Filippani Ronconi

Dal Secolo d'Italia di sabato 13 febbraio 2010
«Gli dèi di Roma si sono rifugiati in India», amava ripetere Pio Filippani Ronconi. Nessuno può darne conferma, ma una cosa è certa: qualunque dovesse essere ora il suo “rifugio” ultraterreno, il grande orientalista e storico delle religioni, padrone di quasi ogni lingua parlata su questo vecchio mondo, sarà perfettamente a suo agio. Del resto, il prossimo 10 marzo avrebbe compiuto novanta anni, spesi senza risparmiarsi, combattendo e, nello stesso tempo, studiando. Letteralmente. Sin dalla seconda guerra mondiale: «In Africa orientale ero uscito in missione per misurare la posizione delle batterie inglesi – ebbe a raccontare in un'intervista – e mi immersi con così tanto piacere nei calcoli riportati sulla pagina scritta che dimenticai di trovarmi a pochi metri dai nemici e mi misi a camminare senza precauzioni». Da quel tiro al bersaglio uscì indenne, ma da allora non ha mai perso il vizio, o forse il gusto, di mostrare il petto ai suoi nemici. I quali, a loro volta, non sono rimasti a guardare. Quando, nel 2000, Armando Torno, da poco responsabile delle pagine culturali del Corriere della Sera, lo chiama a collaborare, la protesta scatenata da un fantomatico lettore farà sì che la sua firma, per quanto indubitabilmente autorevole, scompaia all’istante dal quotidiano di via Solferino.
Malgrado la prestigiosa carriera universitaria, al fianco di accademici del calibro del maestro Giuseppe Tucci, o di Henry Corbin, del quale fu anche allievo, le decine di libri pubblicati e le esperienze acquisite direttamente sul campo, rimaneva imperdonabile quel proposito giovanile, velleitario quanto spontaneo: «Lavare l’onta del tradimento». Difendere l’onore della sua terra, della terra dei suoi padri: «Il 9 novembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso, quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo». Sì, perché Filippani Ronconi, già volontario degli arditi, dopo l’8 settembre del ’43 si schierò dalla parte “sbagliata”, forse illudendosi in un nuovo Cid Campeador le cui gesta coraggiose ne avevano infiammato l’adolescenza di italiano in Spagna (nato a Madrid e vissuto in Catalogna). «Sentivo di dovermi comportare come un caballero», ha raccontato, certamente non per giustificarsi. Forte rimaneva in lui il ricordo del dramma della madre dagli «occhi verdi e spirito celtico»: fucilata dai repubblicani durante la guerra civile spagnola. L’insegnamento e soprattutto l’esempio fornito dal padre: «Siccome siamo signori, dobbiamo combattere e soprattutto dobbiamo essere di esempio per gli altri» gli ripeteva quel «Tex Willer con la laurea in ingegneria». Uomo dalla grande personalità, dopo aver venduto i beni di famiglia (aristocratica, discendenza diretta di patrizi romani e conti del sacro romano impero) per andare in Patagonia, tornò in Italia per partecipare alla prima guerra mondiale. Perdendo tutto, compresi gli animali che portava a cavallo dall’Atlantico al Pacifico, ma trasmettendo al figlio l’ideale di una patria spirituale che, a suo modo, Filippani Ronconi ha sempre continuato a coltivare, rafforzato nelle sue convinzioni dalle letture giovanili sul mito di Roma e dall’incontro prima con le opere e poi con Julius Evola in persona. «A quindici anni – ha raccontato – trovai in una bancarella L’uomo come potenza di Julius Evola. Lui mi presentava un quadro per superare la miseria del sopravvivere quotidiano, mi apriva una concreta esperienza di ordine metafisico più che religioso, io potevo realizzare quello che la tradizione indoeuropea mi proponeva». Uomo d’azione e di pensiero. Se è il padre a insegnargli i primi rudimenti della boxe, sport praticato successivamente con l'indimenticabile Enzo Fiermonte, vero e proprio mito del pugilato romano, in età matura Filippani Ronconi non rinuncia al confronto con sé stesso, sia che si tratti di misurarsi con le più diverse arti marziali – tanto da fregiarsi, a 82 anni suonati, di una cintura nera di Aikido – che di, almeno finché ha potuto, scalare una montagna, passare le proprie domeniche tra escursioni e corsi di alpinismo. «La montagna è maestra – spiegava – e chi sale con te deve essere tuo fratello, perché la sfida alla natura è senza mezze misure o infingimenti. Se sbagli, paghi». Per condividere questa esperienza, diede vita all’Urri – acronimo di Unione rinnovamento ragazzi d’Italia ma anche termine vedico che indica il Dio che sopravvive al tramonto degli dèi – in cui si praticavano anche la speleologia, l’archeologia e la meditazione. Una specie di “società degli scudi” sul modello di quella di Yukio Mishima, sostennero alcuni, magari perché qualcuno di quei ragazzi era anche paracadutista e malgrado Filippani Ronconi tenesse tale associazione ben lontana dalla politica. Colpevole, forse, di non aver avuto – come lo scrittore giapponese – il buon gusto di suicidarsi. Contribuendo così ad alimentare le innumerevoli leggende “nere” che circolano sul suo conto e che hanno fatto sì che alcuni episodi – come la partecipazione al convegno sulla “guerra rivoluzionaria” organizzato nel ’65 dall’Istituto Pollio o il suo impiego all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del Consiglio (da alcuni pistaroli in mala fede interpretabile tout court come attività di “spionaggio”) – lasciassero sullo sfondo l’importanza del suo straordinario contributo di studioso. La curiosità intellettuale “contratta” da bambino che risparmia sulle merendine per comprarsi una malridotta grammatica araba – la prima lingua che impara, grazie al nonno materno che aveva lavorato presso il governo militare italiano a Massaua, è proprio l’arabo – e mai davvero saziata: dalla laurea in indologia con lode, nel marzo 1949, con una tesi su “Le Molteplici condizioni di coscienza nel sistema Vedanta”, agli studi di letteratura persiana ed araba, sufismo e storia dell’Iran antico all’università di Teheran. Dalle ricerche sulle sette gnostiche in India e Tibet, nonché sui movimenti mistici ed eterodossi nell’Islam orientale, agli studi sulla fenomenologia religiosa dello Yoga e dello Sciamanesimo, argomenti sui quali non ha mancato di pubblicare documentati testi. Per il suo eroismo nella difesa del fronte a Nettuno, ricevette la Croce di Ferro. Ma finita la guerra si interessò di antroposofia e di antiche religioni, riuscendo a "comprendere" l'essenza del biddhismo tibetano, che del sufismo musulmano e del cristianesimo orientale.
Non meno importanti gli studi condotti da solo, al di fuori da ogni percorso universitario: dall’antico norvegese all’aramaico, dal tibetano al greco, dalla dialettologia iranica allo svedese. Il tutto arricchito da viaggi. Adattandosi, grazie alla sconfinata conoscenza delle lingue, almeno una quarantina, a qualsiasi mestiere: alcuni probabilmente solo immaginari, come quello che lo vede parte attiva nei servizi di intelligence dell’America Latina, altri – riferiti da lui stesso – di segretario di un ministro sudamericano e doppiatore cinematografico. Tanto che la sua stessa vita, alla fine, sembra piuttosto un film in cui il dramma sentimentale, la spy story, l’avventura esotica e persino la commedia sembrano essersi date appuntamento. Oggi le sue esequie alle ore 11 nella Chiesa russo-ortodossa romana di via del Lago Terrione, 77 (zona Gregorio VII). E ieri, come vuole il Libro tibetano dei morti, è stato salutato dalla luce "bianca e non abbagliante" della neve.

Nessun commento: