Dal Secolo d'Italia di mercoledì 10 febbraio 2010
«Come Pietro vi ho rinnegato nell'alba del giorno dell'ira: mi sono aggrappato al buon senso, mi sono sentito diverso». Sono le parole introduttive di una canzone di Fabrizio Marzi che a suo modo fece epoca. Si tratta di Un uomo da perdere, il brano dedicato a Giancarlo Esposti, il giovane militante di Avanguardia nazionale ucciso il 30 maggio del 1974 in circostanze mai del tutto chiarite in quel di Pian del Rascino, in provincia di Rieti. Uno dei tanti casi oscuri dei cosiddetti "anni di piombo". Dalla vicenda di Esposti, e dalla canzone di Marzi, ha adesso preso spunto lo scrittore milanese Ippolito Edmondo Ferrario, collaboratore di queste pagine e già autore della trilogia noir dedicata a Triora, che ha intitolato proprio "Un uomo da perdere" uno dei ventisette racconti contenuti nel libro scritto a più mani Crimini di piombo (Edizioni Laurum, pp. 340, € 12,00), realizzato a cura di Daniele Cambiaso e Angelo Marenzana.
Nello scritto di Ferrario non mancano riferimenti agli anni Settanta vissuti da una certa parte: «Varcata la porta della sua cantina aveva rivisto una montagna di oggetti dimenticati: un canotto, pinne da sub, un baule, pile di giornali e libri corrosi dall'umidità. C'era una vecchia edizione di Rivolta contro il mondo moderno di Evola dalle pagine ammuffite …». Come se la vita del Giancarlo raccontato in quelle pagine riprendesse forma, attraverso la descrizione delle sue passioni e dei suoi sogni, lui che «come allora ascoltava De André e si perdeva fra le pagine di Viaggio al termine della notte di Céline». Idee, vita, rabbia e un epilogo che è quello narrato dal cantautore milanese Marzi - che denota come certe sintonie con De Andrè non erano soltanto riferibili al timbro di voce ma anche all'abilità di giocare con le parole - riportato anche nel racconto di Ferrario: «Ma il cuore è un po'matto e il passato ritorna per battere forte / ricorda le scelte di vita, le inutili sfide alla morte / Non puoi condannare te stesso, spiegare le trame sottili / con logica fredda di toga, con logica grassa di fifa / E piango, ragazzo bruciato, ultrà di un "commando" sbagliato / se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato / se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato». Il merito di Crimini di piombo, e in questo caso quello di "Un uomo da perdere", è quello di riuscire a restituire alla memoria collettiva, in questo caso attraverso un libro che sintetizza varie esperienze anche il vissuto di chi nel corso degli anni "di piombo" stava nella cosiddetta "parte sbagliata". Restituendo in qualche modo anche il noir, e il genere narrativo sui crimini, a tutti. In molti ricordano infatti che a partire dagli anni Novanta la riflessione a posteriori su certi periodi, specie nella rivisitazione narrativa che ne è stata fatta, è stata affidata quasi completamente a penne di chiara marca sinistrorsa, come nel caso dei libri dell'ex militante padovano di Lotta Continua Massimo Carlotto, come nel suo romanzo più celebre Arrivederci amore ciao.
È senz'altro la prima volta che un libro a scrittura collettiva fornisce dei riferimenti particolarmente graditi anche a chi non ha vissuto quel periodo da allineato alle logiche dei movimenti della sinistra giovanile che fu. Come nel caso del racconto del torinese Giorgio Ballario, "My generation", al centro del quale viene rievocata la tragedia di Acca Larenzia. La scrittura di Ballario si arricchisce di citazioni assolutamente ascrivibili all'immaginario tipico del 1978: da Richie Cunningham di Happy Days, alle cassette di Lucio Battisti, dalle quali risuonava Amarsi un po', ai volumi dell'enciclopedia De Agostini e ai libri di Salgari dietro ai quali, nella biblioteca del protagonista del racconto, sbucavano copie de La Voce della Fogna. E anche l'abbigliamento del protagonista, Orso, è fedele a quello di una generazione un po' punk e alla vigilia di una manifestazione, come ripropone Ballario citando peraltro il titolo di un famoso brano degli Who: «Orso preparò con cura l'abbigliamento per il giorno dopo. Maglione dolcevita nero, jeans a sigaretta sdruciti, fazzolettone per tamponare eventuali emorragie al naso o alle labbra, sciarpa del Toro … E poi il berrettino di lana nero che usava Jack Nicholson nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo». In anni di scontri e di violenza, poi, quella rivista underground che cambia toni e linguaggi: «Leggere La Voce della Fogna, però era un'altra cosa. Lì ci trovavi un sacco di roba interessante. Fumetti, caricature, recensioni musicali, cinema, libri alternativi. E articoli scritti con un linguaggio giovanile, anche se parlavano di personaggi che non aveva mai sentito nominare: Ezra Pound, Céline, Brasillach, Jünger, Drieu, Alain de Benoist. Ma erano i temi affrontati che facevano sembrare quel giornaletto così lontano dagli uffici grigi e male illuminati della federazione. Si parlava di ecologia e sociobiologia, di demografia e pubblicità, di Europa-Nazione e piccole patrie. Era quello che ci piaceva. Si addormentò sfogliando le ultime pagine di una storiella a fumetti realizzata da Jack Marchal, un francese tostissimo che disegnava vignette, incideva canzoni di musica alternativa e faceva il disc-jockey in una radio parigina. Era stato lui a inventare la saga dei topacci neri …». Segni tangibili di un trascorso generazionale sono rintracciabili anche in "Uno dei mods", il racconto del genovese Claudio Asciuti, che già nel 2006 aveva inserito al centro del suo romanzo I semi di marizai (Fanucci) personaggi storici della destra giovanile italiana come l'ex segretario del Fuan romano Biagio Cacciola. Nello scritto di Asciuti prende forma una figura di giovane non allineato alla logica imperante dei «militonti di Lc», autenticamente terzista e per questo etichettato come «il Mod … Ero visto come uno che non amava il casino. Un beat. Un capellone. Uno a parte. Uno dei mods». Percorsi probabilmente autobiografici per Asciuti: già vincitore del Premio Urania col romanzo La notte dei pitagorici, i suoi interessi spaziano dal cinema (i libri Effetto macchina e Il cinema fantasy, la rivista Fotogramma, gli interventi su Lucas, Carpenter e Weir), alla storia delle esplorazioni geografiche (il saggio Il corsaro e il trasvolatore e numerosi interventi universitari), alla storia dell'alimentazione (La Gola, Compact Cucina della Garzanti), allo studio dei fenomeni dell'irrazionale (Il giornale dei misteri), alla musica rock (Gong, Re Nudo, Best), fino ai giorni alle collaborazioni con riviste del calibro di Carmilla e Pulp. Animatore nei primi Ottanta del Collettivo delle ombre, laboratorio di creatività che coniugava politica, fantascienza, poesia, comunicazione e performance varie, Asciuti ha spiegato: «Mi considero un anarchico di destra, o meglio un anarca, nel senso che dà Ernst Jünger a questo termine». Non si tratta dell'unico riferimento che lo scrittore genovese ha fatto rispetto alla cultura di destra: «Pensiamo al fatto che Tolkien è stato l'ispiratore non solo dei Campi Hobbit, ma anche di molti hippy: Tim Leary, ad esempio, lo cita con grande abbondanza in Grande sacerdote. Gli Hobbit sono una comunità pacifista e libertaria, molto anarchica, gli Elfi sono esoteristi e persone non umane che vivono anch'essi in piena libertà di far quel che gli aggrada, e Gandalf è un mago bianco e i guerrieri sono guerrieri e basta, rientrano cioè in una tradizione che sebbene inventata affonda le sue radici in un mondo pre-industriale».
Merito di Crimini di piombo, in conclusione, è anche quello di essere riuscito a creare una sintesi narrativa che rende nella maniera più eterogenea a disparata il vissuto di quelli che sono stati definiti anni di piombo, ma che per molti dei protagonisti, e di coloro che hanno aderito al progetto di scrittura collettiva, sono stati tutt'altro che autenticamente "di piombo", come si evince anche dai rispettivi percorsi. Eppure, un po'tutti nel decennio dei Settanta si sono dovuti raffrontare con l'idea dei tanti ragazzi morti: «Morti - si legge nella prefazione di Cambiaso e Marenzana - che si sommano a morti, e che invitano a chiudere la partita con altri morti. Una storia narrata per dare corpo a un coro che pretenda da una società civile la sua vera ragione di esistere come tale».
Nello scritto di Ferrario non mancano riferimenti agli anni Settanta vissuti da una certa parte: «Varcata la porta della sua cantina aveva rivisto una montagna di oggetti dimenticati: un canotto, pinne da sub, un baule, pile di giornali e libri corrosi dall'umidità. C'era una vecchia edizione di Rivolta contro il mondo moderno di Evola dalle pagine ammuffite …». Come se la vita del Giancarlo raccontato in quelle pagine riprendesse forma, attraverso la descrizione delle sue passioni e dei suoi sogni, lui che «come allora ascoltava De André e si perdeva fra le pagine di Viaggio al termine della notte di Céline». Idee, vita, rabbia e un epilogo che è quello narrato dal cantautore milanese Marzi - che denota come certe sintonie con De Andrè non erano soltanto riferibili al timbro di voce ma anche all'abilità di giocare con le parole - riportato anche nel racconto di Ferrario: «Ma il cuore è un po'matto e il passato ritorna per battere forte / ricorda le scelte di vita, le inutili sfide alla morte / Non puoi condannare te stesso, spiegare le trame sottili / con logica fredda di toga, con logica grassa di fifa / E piango, ragazzo bruciato, ultrà di un "commando" sbagliato / se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato / se t'hanno fregato non conta: lo stile di vita è salvato». Il merito di Crimini di piombo, e in questo caso quello di "Un uomo da perdere", è quello di riuscire a restituire alla memoria collettiva, in questo caso attraverso un libro che sintetizza varie esperienze anche il vissuto di chi nel corso degli anni "di piombo" stava nella cosiddetta "parte sbagliata". Restituendo in qualche modo anche il noir, e il genere narrativo sui crimini, a tutti. In molti ricordano infatti che a partire dagli anni Novanta la riflessione a posteriori su certi periodi, specie nella rivisitazione narrativa che ne è stata fatta, è stata affidata quasi completamente a penne di chiara marca sinistrorsa, come nel caso dei libri dell'ex militante padovano di Lotta Continua Massimo Carlotto, come nel suo romanzo più celebre Arrivederci amore ciao.
È senz'altro la prima volta che un libro a scrittura collettiva fornisce dei riferimenti particolarmente graditi anche a chi non ha vissuto quel periodo da allineato alle logiche dei movimenti della sinistra giovanile che fu. Come nel caso del racconto del torinese Giorgio Ballario, "My generation", al centro del quale viene rievocata la tragedia di Acca Larenzia. La scrittura di Ballario si arricchisce di citazioni assolutamente ascrivibili all'immaginario tipico del 1978: da Richie Cunningham di Happy Days, alle cassette di Lucio Battisti, dalle quali risuonava Amarsi un po', ai volumi dell'enciclopedia De Agostini e ai libri di Salgari dietro ai quali, nella biblioteca del protagonista del racconto, sbucavano copie de La Voce della Fogna. E anche l'abbigliamento del protagonista, Orso, è fedele a quello di una generazione un po' punk e alla vigilia di una manifestazione, come ripropone Ballario citando peraltro il titolo di un famoso brano degli Who: «Orso preparò con cura l'abbigliamento per il giorno dopo. Maglione dolcevita nero, jeans a sigaretta sdruciti, fazzolettone per tamponare eventuali emorragie al naso o alle labbra, sciarpa del Toro … E poi il berrettino di lana nero che usava Jack Nicholson nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo». In anni di scontri e di violenza, poi, quella rivista underground che cambia toni e linguaggi: «Leggere La Voce della Fogna, però era un'altra cosa. Lì ci trovavi un sacco di roba interessante. Fumetti, caricature, recensioni musicali, cinema, libri alternativi. E articoli scritti con un linguaggio giovanile, anche se parlavano di personaggi che non aveva mai sentito nominare: Ezra Pound, Céline, Brasillach, Jünger, Drieu, Alain de Benoist. Ma erano i temi affrontati che facevano sembrare quel giornaletto così lontano dagli uffici grigi e male illuminati della federazione. Si parlava di ecologia e sociobiologia, di demografia e pubblicità, di Europa-Nazione e piccole patrie. Era quello che ci piaceva. Si addormentò sfogliando le ultime pagine di una storiella a fumetti realizzata da Jack Marchal, un francese tostissimo che disegnava vignette, incideva canzoni di musica alternativa e faceva il disc-jockey in una radio parigina. Era stato lui a inventare la saga dei topacci neri …». Segni tangibili di un trascorso generazionale sono rintracciabili anche in "Uno dei mods", il racconto del genovese Claudio Asciuti, che già nel 2006 aveva inserito al centro del suo romanzo I semi di marizai (Fanucci) personaggi storici della destra giovanile italiana come l'ex segretario del Fuan romano Biagio Cacciola. Nello scritto di Asciuti prende forma una figura di giovane non allineato alla logica imperante dei «militonti di Lc», autenticamente terzista e per questo etichettato come «il Mod … Ero visto come uno che non amava il casino. Un beat. Un capellone. Uno a parte. Uno dei mods». Percorsi probabilmente autobiografici per Asciuti: già vincitore del Premio Urania col romanzo La notte dei pitagorici, i suoi interessi spaziano dal cinema (i libri Effetto macchina e Il cinema fantasy, la rivista Fotogramma, gli interventi su Lucas, Carpenter e Weir), alla storia delle esplorazioni geografiche (il saggio Il corsaro e il trasvolatore e numerosi interventi universitari), alla storia dell'alimentazione (La Gola, Compact Cucina della Garzanti), allo studio dei fenomeni dell'irrazionale (Il giornale dei misteri), alla musica rock (Gong, Re Nudo, Best), fino ai giorni alle collaborazioni con riviste del calibro di Carmilla e Pulp. Animatore nei primi Ottanta del Collettivo delle ombre, laboratorio di creatività che coniugava politica, fantascienza, poesia, comunicazione e performance varie, Asciuti ha spiegato: «Mi considero un anarchico di destra, o meglio un anarca, nel senso che dà Ernst Jünger a questo termine». Non si tratta dell'unico riferimento che lo scrittore genovese ha fatto rispetto alla cultura di destra: «Pensiamo al fatto che Tolkien è stato l'ispiratore non solo dei Campi Hobbit, ma anche di molti hippy: Tim Leary, ad esempio, lo cita con grande abbondanza in Grande sacerdote. Gli Hobbit sono una comunità pacifista e libertaria, molto anarchica, gli Elfi sono esoteristi e persone non umane che vivono anch'essi in piena libertà di far quel che gli aggrada, e Gandalf è un mago bianco e i guerrieri sono guerrieri e basta, rientrano cioè in una tradizione che sebbene inventata affonda le sue radici in un mondo pre-industriale».
Merito di Crimini di piombo, in conclusione, è anche quello di essere riuscito a creare una sintesi narrativa che rende nella maniera più eterogenea a disparata il vissuto di quelli che sono stati definiti anni di piombo, ma che per molti dei protagonisti, e di coloro che hanno aderito al progetto di scrittura collettiva, sono stati tutt'altro che autenticamente "di piombo", come si evince anche dai rispettivi percorsi. Eppure, un po'tutti nel decennio dei Settanta si sono dovuti raffrontare con l'idea dei tanti ragazzi morti: «Morti - si legge nella prefazione di Cambiaso e Marenzana - che si sommano a morti, e che invitano a chiudere la partita con altri morti. Una storia narrata per dare corpo a un coro che pretenda da una società civile la sua vera ragione di esistere come tale».
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Giornalista attento alle culture e alle dinamiche giovanili, lavora per E-Polis e collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.
Nessun commento:
Posta un commento