Dal Secolo d'Italia di martedì 2 febbraio 2010
«Possiamo scalare le pareti dell’inferno un centimetro alla volta». Le parole che ogni squadra avrebbe bisogno di sentirsi dire dal proprio allenatore – non dai traghettatori alla Caronte – prima di entrare in campo per una sfida decisiva. Le pronuncia il grande Al Pacino nei panni di Tony D’Amato, coach dei Miami Sharks, in Ogni maledetta domenica (2000), il celebre film sul football americano di Oliver Stone che “presta” il titolo alla raccolta di racconti che Minimum Fax ha appena spedito in libreria (p. 280 € 15).
“Otto storie di calcio”, annuncia il sottotitolo, perché nel vecchio continente è il calcio lo sport della domenica che, malgrado crisi e pessimismi, continua a vivere e lottare insieme a noi. Sì, i Fukuyama dell’opinionismo sportivo avevano torto e per rendersene conto è sufficiente vedere quella pulce di Lionel Messi, fantasista argentino del Barça, ubriacare con la sua classe i cyber - calciatori ipermuscolarizzati. «È la sfrontata negazione di ogni tesi sulla fine della Storia nelle vicende calcistiche», sottolinea Alessandro Leogrande, curatore del volume di cui, per una volta, non è protagonista la nostalgia per un calcio che non c’è più.
E infatti gli autori – per lo più nati tra i Settanta e gli Ottanta – non hanno timore di confrontarsi con l’attualità. Francesco Pacifico denuncia l’autorazzismo degli italiani: «In Mario Balotelli odiano un italiano vero, uno che come noi ha messo il concetto di società alle spalle e vuole uscire da ogni situazione vincente come James bond». Di uno 007, sia pure del calcio, parla Stefano Scacchi: Pierluigi Casiraghi, non il ct dell’Under 21 ma l’omonimo signore brianzolo di quasi settant’anni che va alla ricerca di giovani talenti dall’Europa dell’Est alla Francia, dall’Olanda al Sudamerica. Sui campi di villaggi ignorati dalle cartine geografiche, mischiato agli spettatori di partite trasmesse a malapena da televisioni locali, a rischio di imbattersi in qualche bandito. Come gli è successo in Brasile, sulla superstrada che collega l’aeroporto a San Paolo, quando s’è trovato una pistola puntata alla tempia. Non meno avventuroso il personaggio raccontato da Vittorio Giacopini – fuoriquota, classe ’61, già autore del bellissimo Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (edito da Mondadori nel 2008) – che ricostruisce la leggenda di Bora Milutinovic, l’allenatore “zingaro” che risollevava le sorti delle nazionali più povere del Terzo mondo.
Ci sono poi gli autori/tifosi dolenti. A partire da Luca Mastrantonio, giornalista del Riformista sin troppo indulgente col Cavaliere: «Non foss’altro che per la mia fede calcistica». Milanista, sia pure in via di dissociazione. «Il mio patto con quel diavolo di Silvio è rotto – scrive – e la mia anima è salva». Motivo della rescissione del contratto? «L’inopinata cessione di Kakà, negata alla vigilia del voto per europee e amministrative del giugno 2009, quando era già tutto deciso».
Tommaso Giagni, invece, racconta il dolore per l’omicidio Sandri vissuto da tifoso biancoceleste cresciuto nel mito di Paolo Di Canio: «Quello che costringeva Tommaso Rocchi a vedere Braveheart per caricarlo prima del derby e che dopo la partita scavalcava la vetrata ed entrava in curva con noi». Giagni sfata, dal di dentro, i luoghi comuni sugli ultras – l’inaccettabile semplificazione che li vorrebbe tutti teppisti – e critica la linea dura dello Stato per rendere sicuri gli stadi: «Non si può fare tabula rasa dell’espressione dei tifosi, non si possono vietare gli striscioni, né megafoni, tamburi e fumogeni. Non si è saputo o voluto distinguere il potenziale pericolo da ciò che dà colore al calcio, hanno buttato il bambino con l’acqua sporca». Se Giagni fa parte della minoranza di una minoranza – non soltanto laziale a Roma ma anche laziale non di destra in curva Nord – Carlo Carabba vive «l’esperienza sconfortante di essere della Fiorentina nella capitale. Non per gli sfottò o la solitudine. Il fatto è che, quando lo scoprono, mi chiedono: “Perché?”. Immaginate di confessare a un amico che vi piace una ragazza. Sei pronto a sentirti dire che è brutta, troia, scema, ma lo stupore di un interlocutore che chiede perché è qualcosa che non sei attrezzato a sopportare».
Il libro fa divertire, anche quando descrive la giornata di Andrea Cisi allo stadio Zini tra gli scatenati tifosi della Cremonese, ma non manca la commozione, come nel racconto di Osvaldo Capraro, che confessa «la fine dell’illusione che il calcio sia una sorta di incantesimo in grado di unire le persone». Accade quando il 16 aprile del 2000 a Monopoli, provincia di Bari, un uomo viene colpito alla testa da un oggetto lanciato da un treno in corsa mentre passeggiava con la famiglia, moglie e bambini piccoli. Quel treno era pieno di tifosi del Lecce che tornavano dal derby contro il Bari e l’uomo, il vigile Luigi Schena, uscì dal coma irrimediabilmente segnato dall’afasia. A latere del calcio, purtroppo, c’è anche questo. Ciononostante, continuiamo ad amarlo perché – come scrive Leogrande nella prefazione, raccogliendo l’esortazione di Al Pacino/Tony D’Amato – «è ancora possibile lottare per conquistare ogni tanto un po’ di terra al deserto che avanza».
“Otto storie di calcio”, annuncia il sottotitolo, perché nel vecchio continente è il calcio lo sport della domenica che, malgrado crisi e pessimismi, continua a vivere e lottare insieme a noi. Sì, i Fukuyama dell’opinionismo sportivo avevano torto e per rendersene conto è sufficiente vedere quella pulce di Lionel Messi, fantasista argentino del Barça, ubriacare con la sua classe i cyber - calciatori ipermuscolarizzati. «È la sfrontata negazione di ogni tesi sulla fine della Storia nelle vicende calcistiche», sottolinea Alessandro Leogrande, curatore del volume di cui, per una volta, non è protagonista la nostalgia per un calcio che non c’è più.
E infatti gli autori – per lo più nati tra i Settanta e gli Ottanta – non hanno timore di confrontarsi con l’attualità. Francesco Pacifico denuncia l’autorazzismo degli italiani: «In Mario Balotelli odiano un italiano vero, uno che come noi ha messo il concetto di società alle spalle e vuole uscire da ogni situazione vincente come James bond». Di uno 007, sia pure del calcio, parla Stefano Scacchi: Pierluigi Casiraghi, non il ct dell’Under 21 ma l’omonimo signore brianzolo di quasi settant’anni che va alla ricerca di giovani talenti dall’Europa dell’Est alla Francia, dall’Olanda al Sudamerica. Sui campi di villaggi ignorati dalle cartine geografiche, mischiato agli spettatori di partite trasmesse a malapena da televisioni locali, a rischio di imbattersi in qualche bandito. Come gli è successo in Brasile, sulla superstrada che collega l’aeroporto a San Paolo, quando s’è trovato una pistola puntata alla tempia. Non meno avventuroso il personaggio raccontato da Vittorio Giacopini – fuoriquota, classe ’61, già autore del bellissimo Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (edito da Mondadori nel 2008) – che ricostruisce la leggenda di Bora Milutinovic, l’allenatore “zingaro” che risollevava le sorti delle nazionali più povere del Terzo mondo.
Ci sono poi gli autori/tifosi dolenti. A partire da Luca Mastrantonio, giornalista del Riformista sin troppo indulgente col Cavaliere: «Non foss’altro che per la mia fede calcistica». Milanista, sia pure in via di dissociazione. «Il mio patto con quel diavolo di Silvio è rotto – scrive – e la mia anima è salva». Motivo della rescissione del contratto? «L’inopinata cessione di Kakà, negata alla vigilia del voto per europee e amministrative del giugno 2009, quando era già tutto deciso».
Tommaso Giagni, invece, racconta il dolore per l’omicidio Sandri vissuto da tifoso biancoceleste cresciuto nel mito di Paolo Di Canio: «Quello che costringeva Tommaso Rocchi a vedere Braveheart per caricarlo prima del derby e che dopo la partita scavalcava la vetrata ed entrava in curva con noi». Giagni sfata, dal di dentro, i luoghi comuni sugli ultras – l’inaccettabile semplificazione che li vorrebbe tutti teppisti – e critica la linea dura dello Stato per rendere sicuri gli stadi: «Non si può fare tabula rasa dell’espressione dei tifosi, non si possono vietare gli striscioni, né megafoni, tamburi e fumogeni. Non si è saputo o voluto distinguere il potenziale pericolo da ciò che dà colore al calcio, hanno buttato il bambino con l’acqua sporca». Se Giagni fa parte della minoranza di una minoranza – non soltanto laziale a Roma ma anche laziale non di destra in curva Nord – Carlo Carabba vive «l’esperienza sconfortante di essere della Fiorentina nella capitale. Non per gli sfottò o la solitudine. Il fatto è che, quando lo scoprono, mi chiedono: “Perché?”. Immaginate di confessare a un amico che vi piace una ragazza. Sei pronto a sentirti dire che è brutta, troia, scema, ma lo stupore di un interlocutore che chiede perché è qualcosa che non sei attrezzato a sopportare».
Il libro fa divertire, anche quando descrive la giornata di Andrea Cisi allo stadio Zini tra gli scatenati tifosi della Cremonese, ma non manca la commozione, come nel racconto di Osvaldo Capraro, che confessa «la fine dell’illusione che il calcio sia una sorta di incantesimo in grado di unire le persone». Accade quando il 16 aprile del 2000 a Monopoli, provincia di Bari, un uomo viene colpito alla testa da un oggetto lanciato da un treno in corsa mentre passeggiava con la famiglia, moglie e bambini piccoli. Quel treno era pieno di tifosi del Lecce che tornavano dal derby contro il Bari e l’uomo, il vigile Luigi Schena, uscì dal coma irrimediabilmente segnato dall’afasia. A latere del calcio, purtroppo, c’è anche questo. Ciononostante, continuiamo ad amarlo perché – come scrive Leogrande nella prefazione, raccogliendo l’esortazione di Al Pacino/Tony D’Amato – «è ancora possibile lottare per conquistare ogni tanto un po’ di terra al deserto che avanza».
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