lunedì 1 marzo 2010

Ecco i Black Sabbath da quarant'anni in bilico tra equivoco e inganno (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 febbraio 2010
C'è sempre un assassino, sotto una maschera da assassino? Ovviamente no. E figuriamoci, poi, se la maschera non è stata nemmeno completata ma è soltanto un abbozzo. Un abbozzo che del resto, se lo osservi da un'altra angolazione, con un po' di luce in più, e un po' di ombre in meno, ci mette un niente a cambiare fisionomia. Chi continua a spaventarsi farebbe meglio a tirare un bel respiro e a domandarsi il perché. Magari è la volta buona che se lo ricorda: la paura, come la bellezza, è spesso più negli occhi di chi guarda, che nelle cose in se stesse.
Il rock lo sapeva fin dall'inizio, che basta essere fuori dalle regole per mettere in allarme gli ottusi. L'aveva imparato dal blues, come i figli che imparano dai padri anche quando si illudono di aver capito tutto da soli. Negli anni Cinquanta le loro strade si erano immediatamente separate - quando il rock and roll aveva dovuto fingere di essere puro svago e semplice eccesso di energia giovanile - ma era poco più di uno scherzo. Un piccolo trucco per seminare il poliziotto di quartiere. Tu sei uno e noi siamo due: chi hai deciso di seguire? Chi hai deciso di lasciar andare? Nella seconda metà degli anni Sessanta le strade si erano ricongiunte. E a forza di camminare insieme il padre e il figlio si erano (ri)conosciuti non solo col cuore ma anche col cervello, liberandosi di ogni residuo sospetto. Di ogni residua rivalità. Il blues era come la terra che assicura il nutrimento e che, specie da lontano, sembra sempre uguale a se stessa. Il rock come una pianta che si modificava un po' a ogni nuovo raccolto, ma che poteva sopravvivere solo perché le sue radici arrivavano così in profondità. Il blues era talmente fertile che ne bastava qualche zolla per rigenerare la più arida delle spianate. Come in Inghilterra. La bonifica procedeva a vista d'occhio. E dopo un po' ci potevi coltivare di tutto: frutti sugosi, e vagamente tossici, come quelli degli Stones; oppure anche fiori dai colori cangianti come quelli dei Pink Floyd.
Il primo album dei Led Zeppelin era apparso nel gennaio del 1969. Il primo dei Black Sabbath uscì nel febbraio del 1970. Esattamente quarant'anni fa. I Led Zeppelin avevano rivelato la potenza dell'hard rock: ed erano schizzati via come bolidi sull'asfalto, luccicanti di vernice tirata a lucido e di cromature perfette. I Black Sabbath avevano appena cominciato a scaldare i motori dell'heavy metal: per ora si sentiva il rombo. Il resto te lo dovevi immaginare. Il progetto sarebbe stato sviluppato meglio da altri, ma il presagio (che in realtà ne comprendeva una lunga serie, come un banco di nubi che non ha ancora avuto il tempo di dispiegarsi nel cielo) restava a loro merito. E non è che l'attesa di una fase più avanzata fosse una perdita di tempo. Era il tipo di officina in cui ci si aggira volentieri: gente che lavora di buona lena, il disordine solo apparente degli utensili disseminati ovunque. Era chiaro che l'assemblaggio finale non fosse stato ancora raggiunto, ma si vedeva altrettanto bene che parecchie parti non erano affatto lontane dalla data di consegna. Sette mesi e sarebbe arrivato Paranoid, con quell'indimenticabile sgassata del brano omonimo; altri dieci e, nel luglio del '71, il tris avrebbe avuto anche la terza figura (né fante né re, semmai un viandante in odore di magia) di Master of Reality. E poi, accantonando tutto il resto, era divertente alzare lo sguardo di tanto in tanto e dare un'occhiata all'insegna là fuori. Black Sabbath, il Sabba Nero. Più le spari grosse e più ti prendono alla lettera. Fai un film western e nessuno si immagina che tu sia realmente un cowboy. Scrivi di serial killer e nessuno ha paura che tu lo possa ammazzare e seppellire chissà dove. Ma appena sconfini nel macabro e nell'occulto, si fa per dire, si fanno il segno della croce e invocano l'esorcista.
«Non eravamo in grado di evocare neanche una scorreggia. Ricevevamo inviti per suonare a raduni di streghe e messe nere al cimitero di Highgate. Ritengo onestamente che fosse tutto uno scherzo. Siamo stati l'ultimo dei gruppi hippy: eravamo per la pace». Parola di Ozzy Osbourne, cantante storico dei Black Sabbath e principale responsabile dell'immagine "satanica" del gruppo, in un'intervista rilasciata a Rolling Stone e pubblicata nel luglio del 2002. Dovrebbe essere sufficiente, ma il giornalista non ne ha ancora abbastanza (oppure sa bene che saranno i suoi lettori, a non averne abbastanza) e quindi insiste, sia pure facendo finta di no: «In diverse foto live dei Sabbath, in effetti, tu sfoggi il segno della pace». Ozzy abbocca. Crede di doversi scusare ulteriormente. Lascia perdere gli hippy e ritorna sul tema delle presunte frequentazioni con messer Satanasso. Non c'è mica stato solo il suo vecchio gruppo. C'è stato anche il seguito in prima persona. La ricusazione, allora, dev'essere completa. «Non ho mai praticato la magia nera. Il motivo per il quale composi Mr. Crowley sul mio primo album da solista, fu che tutti parlavano di Aleister Crowley. Jimmy Page comprò la sua casa (la famigerata Boleskine House che nel 1899 era stata acquistata dall'occultista Crowley a fini rituali - ndr) e un mio roadie lavorava con uno dei suoi. Allora pensai: Mr. Crowley, chi sei? Da dove vieni? Ma la gente ascoltò la canzone e pensò: è dentro la stregoneria fino al collo».
Metà equivoco e metà inganno. Superficialità a pari merito. All'inizio Black Sabbath era solo un nome intrigante - e loro, figurarsi, avevano cominciato facendosi chiamare "Polka Tulk Blues Band" - poi è diventato un marchio di fabbrica. Un'attrazione potente per i giovani e per i ribelli di ogni età, come tutto ciò che si contrappone all'establishment. Se il Cristianesimo va a braccetto col peggior liberismo, quello che costruisce immense fortune sulle macerie di smisurate povertà, diventa un po' complicato credere che il suo dio sia davvero quell'apoteosi di luce e di amore di cui parlano i preti. Come ha scritto Luca Leonello Rimbotti, nella premessa del suo ottimo Rock duro anti-Sistema, «se il Paradiso, il migliore-dei-mondi-possibili, è la società in cui viviamo, questa [la disamina dell'hard rock e dell'heavy metal] è solo un'occhiata dall'interno dell'Inferno rock». Non è la maschera che si indossa, quella che conta. È la faccia che c'è sotto.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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