lunedì 22 marzo 2010

Giovanna d'Arco raccontata da Brasillach (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di sabato 20 marzo 2010
«Ciò che conta è lo stupore». Con queste parole il 16 gennaio del 1910 Charles Péguy pubblicava Il Mistero della carità di Giovanna d'Arco. Un capolavoro di poesia, teologia, cristianesimo vissuto. Lo scrittore e poeta francese aveva allora 37 anni, nel maggio del 1909 aveva fatto, in quanto riservista, l'esercitazione militare. E gli era capitato per caso di tornare nella natia Orléans e di sfilare in parata avanti alla statua della sua più celebre concittadina, Giovanna d'Arco, da pochi mesi proclamata beata. Le aveva già dedicato una lunghissima opera teatrale quando aveva 23 anni, facendone una specie di socialista ante litteram. Dirà: «Io obbedisco ai segni: non bisogna mai resistere... fedeltà al reale che metto sopra di tutto». Péguy decide di riprendere in mano il suo vecchio testo e di aggiornarlo. Comincia col fare delle aggiunte sulle pagine stampate, poi si rende conto di aver troppo da dire e riscrive tutto da capo.
Concidenze significative o meno, proprio nel 1909 nasceva un altro scrittore francese che morirà giovane come Péguy e che proprio a 23 anni darà alle stampe anche lui una sua opera teatrale su Giovanna d'Arco: Robert Brasillach. Coincidenze alle quali andrebbe aggiunto il fatto che se Péguy è esplicitamente citato da Mussolini insieme a Sorel tra i precursori teorici del fascismo, Brasillach dedicherà molte pagine alla sua passione per la visione del mondo del fascismo italiano. In effetti, c'è molto che accomuna i due scrittori francesi, il poeta e drammaturgo morto in combattimento all'inizio della prima battaglia della Marna il 5 settembre 1914 e il poeta, narratore, giornalista e drammaturgo fucilato nel 1945 per "collaborazionismo" a soli 36 anni. Innanzitutto c'è indubbiamente il comune riferimento a Giovanna d'Arco, la pulzella d'Orléans, l'eroina nazionale francese che riunificò il proprio paese risollevandone le sorti durante la guerra dei Cent'anni, guidando le armate francesi contro quelle inglesi. Catturata dai borgognoni davanti Compiègne, Giovanna fu venduta ai britannici che la sottoposero a un processo per eresia, al termine del quale, il 30 maggio 1431, fu condannata al rogo e arsa viva a soli 19 anni. Beatificata nel 1909 - anno della conversione di Péguy e della nascita di Brasillach - è stata canonizzata nel 1920 da papa Benedetto XV e poi dichiarata patrona di Francia.
Ma perché a oltre settant'anni dalla sua pubblicazione in Francia il dramma di Brasillach non aveva avuto una sua traduzione italiana? Un destino, questo, che del resto ha accompagnato nel nostro paese quasi tutta l'opera dello scrittore. Solo nel 1970 è infatti sbarcata nelle nostre librerie la traduzione di Orsola Nemi del suo romanzo I sette colori per i tipi delle Edizioni del Borghese. E, guardando ad esempio a un altro letterato a lui affine, se dell'opera di Pierre Drieu la Rochelle si approprierà la grande editoria, da Longanesi a Guanda, da Sugar al Mulino, per Brasillach ci sarà sempre una certa qual ritrosia… Perché? Ce lo spiegava, nel 1965, Giano Accame: «Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità. Il suo ottimismo, la sua gioia di vivere oggi sono irritanti per le ragioni su cui si fondavano». Ha aggiunto Stenio Solinas: «Il grande equivoco sul quale poggia il giudizio, ideologico più che critico, nei confronti di Brasillach è quello di non perdonargli proprio questo atteggiamento di fronte alla vita».
Tutto questo emerge adesso proprio nell'opera teatrale giovanile dedicata a Giovanna d'Arco, Domrèmy, tradotta per la prima volta in italiano dalle edizioni Settimo Sigillo di Enzo Cipriano (pp. 192, € 18,00, per acquistarlo si può scrivere a ordini@libreriaeuropa.it), con una bella ed elegante edizione curata da Mario M. Merlino e Rodolfo Sideri, che fanno introdurre il dramma da due saggi critici sull'opera di Robert Brasillach.
Scritto all'età di 23 anni, quando lo scrittore frequentava l'Ecole Normale in compagnia di Maurice Bardèche e Thierry Maulnier, nella pièce l'eroina e santa non compare mai. Sono i familiari, gli amici, le amiche, il curato, il podestà del suo villaggio, Domrèmy appunto, a raccontarne via via la vicenda, da quando Jeannette, come tutti la chiamano con familiarità, aveva lasciato il paese vestita da uomo per andare dal Delfino d'Orléans e convincere la Francia a reagire. «È bene - spiega a un certo punto Fra' François, evidente alter ego di Brasillach - che i ragazzi e le ragazze amino le belle giornate fatte da Dio, il sole e nostra sorella felicità. Francesco li benediceva perché sapeva che i santi sono necessari al mondo, come il lievito serve a fare il pane, ma il lievito da solo è amaro e ammuffisce. Occorre la buona pasta ricca e compatta, nessuno si salverà da solo, ma solo con gli altri, il mondo verrà presentato a Dio tutto intero, pasta e lievito, come il pane caldo e dorato che sforna il panettiere. Ciascuno di noi ha il suo ruolo sulla terra». E Hauviette, la ragazza amica della Pulzella, mostra di avere come proprio orizzonte quello della felicità: «Non trovo che la vita sia cattiva benché ci sia certamente tanta povera gente che soffre e che pena: vorrei vederli felici e li aiuto come posso. Ma vorrei la mia parte di felicità... Non sono una santa, voi lo sapete. Tutto quello di bello che mi capita io credo venga sempre da Dio e non potrei mai separarmene». E anche di fronte al sacrificio di Jeannette, la speranza e la felicità non vengono meno. «Amo sempre ciò che è bello da vedere, da gustare, da prendere», ammette Hauviette. Del resto lo stesso autore di Domrémy, Robert Brasillach, prima di andare al patibolo, scriverà dal carcere, rivolgendosi a un ragazzo francese della classe '40: «Tu che mi leggerai, e che vivrai in un mondo diverso, avrai fatto la tua, scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obiettività storica che noi abbiamo avuto per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.

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