Dal Secolo d'Italia di mercoledì 3 marzo 2010
«Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose». Inizia così Angeli a pezzi (Marcos y Marcos, pp. 272, € 10), l’esilarante quanto commuovente romanzo di Dan Fante – 66 anni il prossimo 19 febbraio – che la casa editrice milanese, a distanza di un decennio dalla prima e ormai introvabile edizione, ha appena riportato in libreria. Incipit appetitoso, perché Bruno Dante è l’alter ego dell’autore, figlio di quel Jonathan Dante – protagonista anche della più recente commedia di Dan Fante, Don Giovanni (Edizioni Spartaco 2009, pp. 83 € 10) – che altri non è che John Fante. E inseguendo la stessa traiettoria amara del padre anche Dan dà la sua picconata all'illusione dell'american dream con una sorta di "viaggio al termine dell'americanismo"...
Se John, indossati i panni del mitico Arturo Bandini, ha tratteggiato la figura dell’irascibile padre Nick, scalpellino abruzzese di Torricella Peligna emigrato a New York agli albori del secolo, soffermandosi in più occasioni sulla sua «predisposizione per le risse da bar», allo stesso modo Dan (nella foto a sinistra) ci rivela un’immagine dello scritto italoamericano non del tutto coincidente con quella incipriata dal successo. Corsi e ricorsi storici: nella tradizione di casa Fante il rapporto tra le diverse generazioni è difficile, per usare un eufemismo. «Era un vero bastardo, sempre incazzato per una cosa o l’altra – così Bruno / Dan descrive il padre – e amarlo non era stata una cosa semplice per nessuno. Disponeva della terribile capacità di scoprire il punto debole di una persona e poi, in un momento di vulnerabilità, colpirla con un’accetta».
Così come John, pur non di seguire le orme paterne, lasciò ventenne il Colorado per inseguire il sogno di farsi scrittore nella città degli angeli, accontentandosi di fare i lavori più stravaganti, dal fattorino d’albergo allo stivatore, Dan, alla stessa età, lascerà la California e Los Angeles per la grande mela, improvvisandosi commesso, muratore, noleggiatore di limousine e tassista prima di seguire anch’egli, a quarant’anni suonati, la vocazione letteraria.
Quando il padre muore, nel ’83, non è ancora lo scrittore cult che spopolerà negli anni Novanta in Europa (in Italia grazie soprattutto a Marcos y Marcos). Charles Bukowski l’aveva “riscoperto” alla fine dei Settanta leggendo per caso il suo romanzo più celebre, Chiedi alla polvere (’39), e ne aveva fatto ripubblicare parte delle opere ma la popolarità, quella vera, Fante non farà in tempo a godersela. Saranno i lauti guadagni per l’attività di sceneggiatore a ripagare l’amarezza per i mancati riconoscimenti alla sua qualità di narratore.
«Lo straordinario fiume di onestà e dolore che era la sua opera di scrittore era diventato secco – scrive Dan – e lui dimenticò che la sua passione era scrivere romanzi e imparò a giocare a golf. Bere con gli amici sceneggiatori diventò tutto quello che contava». Altro vizio, quest’ultimo, trasmesso ai figli. Dan troverà nella scrittura la forza per smettere di bere – «perché nessuno da ubriaco scrive bene, proprio nessuno» – ma al fratello maggiore Nicholas andrà peggio. «Morto per alcolismo nel ’97. Investito come un cane» recita la dedica che Dan gli rivolge nel successivo Agganci (edito sempre da Marcos y Marcos nel 2000, dieci anni fa) in cui il “tema” centrale è proprio la lotta per affrancarsi dalla dipendenza e fare il possibile «per non annegare la propria esistenza».
La prima inquadratura di Angeli a pezzi, non a caso, è proprio all’interno dell’ospedale San Giuseppe di Cupertino, nel Bronx: reparto alcolizzati e malati di mente. Bruno c’è entrato per disintossicarsi, dopo un tentativo di suicidio – «ero depresso e soffrivo di emicrania per via dei magri guadagni frutto di squallidi lavoretti di merda» – e ne esce non perché sia guarito, anzi, ma per accorrere al capezzale del padre, ricoverato in fin di vita al Cedars Hospital di Los Angeles. La sua vecchia città gli appare profondamente mutata: non è più quella illuminata del sogno americano «dove il sole senza tramonto riempie il mondo di speranze» e che la presenza della mecca del cinema rendeva oltremodo seducente, ma quella del brusco risveglio della disillusione, di una realtà ben più cruda di un ovattato set cinematografico: «Una discarica umana, grande sporca e deforme come una vecchia e grassa puttana con un rossetto rosso splendente». Era in quella città che Jonathan aveva iniziato a morire molto tempo prima: «Produttori cinematografici ventiduenni gli avevano spappolato il cervello e guru della distribuzione avevano deciso il corso della sua vita. Mio padre aveva passato tutta la vita a leccare il culo agli attori e agli agenti di Hollywood e ora moriva di questo. Non lo aveva mai reso felice». Fino a quando «il suo vecchio, cieco, diabetico corpo, dopo l’amputazione della seconda gamba, aveva deciso di arrendersi e lasciar perdere». Un’agonia atroce, come ebbe a testimoniare lo stesso Bukowski (a sinistra): «Una delle più lente e orribili morti a cui io abbia mai assistito». Una seconda morte, perchè – sempre per dirla con l’autore di Storie di ordinaria follia – «finire ad Hollywood a scrivere sceneggiature, ecco cosa l’aveva ucciso».
Bruno arriva giusto in tempo per salutare il genitore, divorato dal male e semi-incosciente, irrimediabilmente diverso dall’uomo che aveva amato e odiato, ammirato e temuto in egual misura, del quale ricordava in particolar modo una foto: «Non aveva più di ventidue o ventitre anni. In piedi su un prato, indossava una maglietta zuppa di sudore, il sole alle spalle, pantaloni arrotolati perché stava giocando a baseball, mani sui fianchi, testa piegata da una parte, guardando in macchina con un’espressione insolente. Un Dante giovane e orgoglioso, che teneva il mondo per le palle».
Adesso le parti s’erano invertite e il mondo, per quanto non proprio in salute, sembrava cavarsela decisamente meglio di lui. L’american dream era svanito come una bolla di sapone, lasciando dietro di sé una palude in cui è facile imbattersi nelle sabbie mobili della quotidianità, che assorbono tutto e tutti con indifferenza.
Per ritrovare l’intimità con quell’uomo «di idee forti, opinioni estreme e salde passioni» a Bruno non rimane che tornare nella loro vecchia casa di Point Dume a Malibu, sulla ventosa penisola promontorio che si affaccia sull’oceano, dove ad aspettarlo c’è soltanto Rocco, il malandato bull terrier del padre insieme al quale inizierà una picaresca fuga dal dolore.
È quello che, in maniera diversa, fece anche suo padre: «Si trasferì a Point Dume per fuggire da Hollywood, da tutta quell’intensità, quello stress, quel ritmo di vita, di relazioni, di lavoro, e anche da quella mentalità malata. Per questo quel posto resta così vivido per me. Perché andando a stare lì, lui, mio padre, stava scappando lontano ma non lontano abbastanza».
Tutto era esattamente come ricordava. Dalla foto incorniciata dello scrittore americano ma nietzscheiano H. L. Mencken, con «lo sguardo del grande iconoclasta che si presentava piuttosto minaccioso» ai libri sparsi ovunque. Pile di volumi accatastate qua e là. «Solo i libri sugli scaffali dietro la scrivania erano quelli importanti. Roba sacra. A differenza di tutti gli altri, non venivano mai spostati, se non per essere riletti. C’era tutto Knut Hamsun e Jack London. Uomini di talento, come lui. Uomini da rispettare, con cui fare davvero i conti. Il resto contava ben poco. Tirai giù una copia di Fame. Questo libro, ripeteva mio padre, l’aveva fatto diventare scrittore. Nel mezzo, scoprii un foglio di carta piegato in quattro. Aprii l’improvvisato segnalibro e riconobbi subito la calligrafia di mio padre. Ripetuta all’infinito, c’era una firma: Knut Hamsun».
Se John, indossati i panni del mitico Arturo Bandini, ha tratteggiato la figura dell’irascibile padre Nick, scalpellino abruzzese di Torricella Peligna emigrato a New York agli albori del secolo, soffermandosi in più occasioni sulla sua «predisposizione per le risse da bar», allo stesso modo Dan (nella foto a sinistra) ci rivela un’immagine dello scritto italoamericano non del tutto coincidente con quella incipriata dal successo. Corsi e ricorsi storici: nella tradizione di casa Fante il rapporto tra le diverse generazioni è difficile, per usare un eufemismo. «Era un vero bastardo, sempre incazzato per una cosa o l’altra – così Bruno / Dan descrive il padre – e amarlo non era stata una cosa semplice per nessuno. Disponeva della terribile capacità di scoprire il punto debole di una persona e poi, in un momento di vulnerabilità, colpirla con un’accetta».
Così come John, pur non di seguire le orme paterne, lasciò ventenne il Colorado per inseguire il sogno di farsi scrittore nella città degli angeli, accontentandosi di fare i lavori più stravaganti, dal fattorino d’albergo allo stivatore, Dan, alla stessa età, lascerà la California e Los Angeles per la grande mela, improvvisandosi commesso, muratore, noleggiatore di limousine e tassista prima di seguire anch’egli, a quarant’anni suonati, la vocazione letteraria.
Quando il padre muore, nel ’83, non è ancora lo scrittore cult che spopolerà negli anni Novanta in Europa (in Italia grazie soprattutto a Marcos y Marcos). Charles Bukowski l’aveva “riscoperto” alla fine dei Settanta leggendo per caso il suo romanzo più celebre, Chiedi alla polvere (’39), e ne aveva fatto ripubblicare parte delle opere ma la popolarità, quella vera, Fante non farà in tempo a godersela. Saranno i lauti guadagni per l’attività di sceneggiatore a ripagare l’amarezza per i mancati riconoscimenti alla sua qualità di narratore.
«Lo straordinario fiume di onestà e dolore che era la sua opera di scrittore era diventato secco – scrive Dan – e lui dimenticò che la sua passione era scrivere romanzi e imparò a giocare a golf. Bere con gli amici sceneggiatori diventò tutto quello che contava». Altro vizio, quest’ultimo, trasmesso ai figli. Dan troverà nella scrittura la forza per smettere di bere – «perché nessuno da ubriaco scrive bene, proprio nessuno» – ma al fratello maggiore Nicholas andrà peggio. «Morto per alcolismo nel ’97. Investito come un cane» recita la dedica che Dan gli rivolge nel successivo Agganci (edito sempre da Marcos y Marcos nel 2000, dieci anni fa) in cui il “tema” centrale è proprio la lotta per affrancarsi dalla dipendenza e fare il possibile «per non annegare la propria esistenza».
La prima inquadratura di Angeli a pezzi, non a caso, è proprio all’interno dell’ospedale San Giuseppe di Cupertino, nel Bronx: reparto alcolizzati e malati di mente. Bruno c’è entrato per disintossicarsi, dopo un tentativo di suicidio – «ero depresso e soffrivo di emicrania per via dei magri guadagni frutto di squallidi lavoretti di merda» – e ne esce non perché sia guarito, anzi, ma per accorrere al capezzale del padre, ricoverato in fin di vita al Cedars Hospital di Los Angeles. La sua vecchia città gli appare profondamente mutata: non è più quella illuminata del sogno americano «dove il sole senza tramonto riempie il mondo di speranze» e che la presenza della mecca del cinema rendeva oltremodo seducente, ma quella del brusco risveglio della disillusione, di una realtà ben più cruda di un ovattato set cinematografico: «Una discarica umana, grande sporca e deforme come una vecchia e grassa puttana con un rossetto rosso splendente». Era in quella città che Jonathan aveva iniziato a morire molto tempo prima: «Produttori cinematografici ventiduenni gli avevano spappolato il cervello e guru della distribuzione avevano deciso il corso della sua vita. Mio padre aveva passato tutta la vita a leccare il culo agli attori e agli agenti di Hollywood e ora moriva di questo. Non lo aveva mai reso felice». Fino a quando «il suo vecchio, cieco, diabetico corpo, dopo l’amputazione della seconda gamba, aveva deciso di arrendersi e lasciar perdere». Un’agonia atroce, come ebbe a testimoniare lo stesso Bukowski (a sinistra): «Una delle più lente e orribili morti a cui io abbia mai assistito». Una seconda morte, perchè – sempre per dirla con l’autore di Storie di ordinaria follia – «finire ad Hollywood a scrivere sceneggiature, ecco cosa l’aveva ucciso».
Bruno arriva giusto in tempo per salutare il genitore, divorato dal male e semi-incosciente, irrimediabilmente diverso dall’uomo che aveva amato e odiato, ammirato e temuto in egual misura, del quale ricordava in particolar modo una foto: «Non aveva più di ventidue o ventitre anni. In piedi su un prato, indossava una maglietta zuppa di sudore, il sole alle spalle, pantaloni arrotolati perché stava giocando a baseball, mani sui fianchi, testa piegata da una parte, guardando in macchina con un’espressione insolente. Un Dante giovane e orgoglioso, che teneva il mondo per le palle».
Adesso le parti s’erano invertite e il mondo, per quanto non proprio in salute, sembrava cavarsela decisamente meglio di lui. L’american dream era svanito come una bolla di sapone, lasciando dietro di sé una palude in cui è facile imbattersi nelle sabbie mobili della quotidianità, che assorbono tutto e tutti con indifferenza.
Per ritrovare l’intimità con quell’uomo «di idee forti, opinioni estreme e salde passioni» a Bruno non rimane che tornare nella loro vecchia casa di Point Dume a Malibu, sulla ventosa penisola promontorio che si affaccia sull’oceano, dove ad aspettarlo c’è soltanto Rocco, il malandato bull terrier del padre insieme al quale inizierà una picaresca fuga dal dolore.
È quello che, in maniera diversa, fece anche suo padre: «Si trasferì a Point Dume per fuggire da Hollywood, da tutta quell’intensità, quello stress, quel ritmo di vita, di relazioni, di lavoro, e anche da quella mentalità malata. Per questo quel posto resta così vivido per me. Perché andando a stare lì, lui, mio padre, stava scappando lontano ma non lontano abbastanza».
Tutto era esattamente come ricordava. Dalla foto incorniciata dello scrittore americano ma nietzscheiano H. L. Mencken, con «lo sguardo del grande iconoclasta che si presentava piuttosto minaccioso» ai libri sparsi ovunque. Pile di volumi accatastate qua e là. «Solo i libri sugli scaffali dietro la scrivania erano quelli importanti. Roba sacra. A differenza di tutti gli altri, non venivano mai spostati, se non per essere riletti. C’era tutto Knut Hamsun e Jack London. Uomini di talento, come lui. Uomini da rispettare, con cui fare davvero i conti. Il resto contava ben poco. Tirai giù una copia di Fame. Questo libro, ripeteva mio padre, l’aveva fatto diventare scrittore. Nel mezzo, scoprii un foglio di carta piegato in quattro. Aprii l’improvvisato segnalibro e riconobbi subito la calligrafia di mio padre. Ripetuta all’infinito, c’era una firma: Knut Hamsun».
Sotto le non troppo mentite spoglie di Bruno Dante, l'autore ci porta con sé in un viaggio velocissimo, che via via lo traghetterà da un folle autolesionismo verso una discesa negli inferi, al fianco di un cane-Caronte e di una Beatrice prostituta, con le strade di Los Angeles come gironi infernali, finchè il nostro Dante non riuscirà a vedere le stelle, scoprendo che anche l'oceano è «di un blu che non avevo mai notato prima». E alla fine resterà ancora solo, nella sua macchina, con il cane morto al suo fianco e tutta la rabbia e la disperazione di un uomo. E' la notte del "sogno americano".
Nessun commento:
Posta un commento