giovedì 4 marzo 2010

Ecco perchè rivendichiamo Mario Pannunzio

Dal Secolo d'Italia di giovedì 4 marzo 2010
«Maestro di giornalismo e di libertà». Così si intitola la manifestazione con cui il Comune di Lucca, domani - venerdì 5 marzo - alle ore 10.30 presso la settecentesca Villa Bottini, si appresta a ricordare il suo concittadino più illustre, Mario Pannunzio, nel centenario dalla nascita. Alla commemorazione, però, è dedicata giusto una mezz'ora. Il tempo di presentare il francobollo emesso dalle poste italiane che lo ritrae com'era in vita: circondato di libri e riviste. Dopodiché, a misurare l'attualità de "La lezione di Pannunzio", sono chiamati, tra gli altri, il ministro Sandro Bondi, il senatore Marcello Pera, Paolo Mieli e Mario Cervi. Il prossimo martedì, 9 marzo, invece, presso la Sala della Lupa a Roma, saranno il presidente della Camera Gianfranco Fini, Nello Ajello, Antonio Maccanico e Massimo Teodori (alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano) a confrontarsi sulla figura dell'eclettico intellettuale "100 anni dopo". Iniziative legate alla ricorrenza, certo, ma che possono rappresentare una boccata d'ossigeno in un dibattito politico asfittico che ripropone il cupo modello della contrapposizione tra vecchi blocchi "ideologici" indisponibili al confronto e protesi alla delegittimazione dell'avversario. Modernariato tardo-ottocentesco, di cui confidavamo di esserci liberati insieme con la vecchia iconografia della guerra fredda tra democristiani e comunisti.
Lo ha auspicato Teodori in una recente intervista: «Ora più che mai - ha dichiarato lo storico - il paese ha bisogno davvero di quella cultura della democrazia laica, riformatrice, europea, senza rigidezze ideologiche di cui fu artefice Mario Pannunzio». Insomma: parliamone. Magari ricordando proprio quello che questo intellettuale innamorato di Tocqueville riuscì a fare negli anni '50 con Il Mondo - il settimanale che diresse dal febbraio '49 al marzo '66 - laddove le forze politiche si erano attardate su posizioni di retroguardia, limitandosi a coltivare le rispettive rendite di posizione elettorali. Chiamò a raccolta irregolari e non allineati e garantì loro la massima indipendenza, diede voce a tutti gli spiriti liberi, e non inquadrati nelle due chiese comunista e democristiana, ponendo al centro i diritti inalienabili della persona umana, la libertà di parola e il senso delle istituzioni e dello Stato. Fu un borghese "anomalo", Pannunzio, almeno rispetto al cliché del conservatore schierato in difesa degli interessi e privilegi dell'alta borghesia. Pronto com'era, invece, a partire lancia in resta contro le rendite finanziarie e i monopoli. Denunciando l'invadenza clericale e gli intrallazzi tra mondo politico e economico. Contro i palazzinari e in favore della scuola pubblica. Intransigente verso ogni totalitarismo. Né con il Pci, né con la Dc, ma per una posizione "terza". Verrebbe spontaneamente da dire "uno di noi" se la frase non l'avessero già pronunciata in tanti nel passato. Troppi. Eugenio Scalfari ha paragonato i "pannunziani postumi" ai «nuovi Mille: sono come un tempo i garibaldini, tutti asserivano di aver partecipato alla storica impresa». In realtà egli stesso non sfugge a tale definizione e la leggenda vuole che Pannunzio in persona si preoccupò di disporre che alle proprie esequie l'ex sodale non potesse parteciparvi. Ma indubbiamente Il Mondo era stato un'altra cosa. Con un ruolo semmai speculare e parallelo a quello del longanesiano Borghese: posizionarsi in un altrove rispetto al potere democristiano e a quello comunista. E non è certo un caso, infatti, se molti suoi collaboratori, dopo la chiusura, scelsero di scrivere per il Giornale fondato da Indro Montanelli nel 1974.
Nessun erede titolato, pertanto, anche perché Pannunzio morì povero. Gli stessi radicali hanno cambiato pelle e conservano poco di quel primo partito radicale che Pannunzio contribuì a fondare, salvo poi uscirne nel '62. Lo ha certificato l'amico e discepolo Pier Franco Quaglieni, fondatore del Centro Pannunzio di Torino già nel '68, appena dopo la morte del giornalista: «Emma Bonino, candidata presidente alle regionali del Lazio - ha detto - è ormai estranea alla tradizione pannunziana perché ha perso ogni connotato radical-liberale per convertirsi a un trasformismo di stampo doroteo...».

La sua lezione, tuttavia, non è andata perduta. Minimizzata, forse. Ma è il destino di chi si muove fuori dalle grandi Chiese, l'essere condannato all'inesistenza mentre si è in vita per poi essere rimossi successivamente. E non potendo negare ciò che è stato, si banalizza. L'ha scritto bene Pierluigi Battista: «La lezione del Mondo è stata edulcorata e immersa nel nostalgismo melenso ed ecumenico. Le asperità di quella comunità politica e intellettuale sono state levigate, ridotte e caricaturizzate nelle dimensioni di qualche arguzia da bar, di qualche strada o piazza di moda, dove la sera si andava e si riandava».
Allo stesso modo, ancora non si riconosce appieno l'importanza che ebbe la vicenda umana e professionale di Pannunzio: pittore, critico e sceneggiatore cinematografico, lettore infaticabile di libri, animatore culturale e «profeta disarmato» - per citare la bella definizione della scrittrice Mirella Serri, autrice del libro I profeti disarmati. 1945-1948 (Corbaccio 2008) - che, con Luigi Einaudi, Ernesto Rossi, Gateano Salvemini e pochi altri, si misurò come un Davide contro due Golia.
Tutto iniziò negli anni Trenta, dove nell'ambiente del caffè Aragno non erano in pochi gli irregolari. Tra i tanti, il modenese Antonio Delfini e il lucchese Mario Pannunzio, allora giovani aspiranti scrittori. Non erano fascisti ma, come ammetterà col senno di poi Delfini anni dopo, «non erano antifascisti, anzi sfoggiavano all'occhiello un magnifico, lustro, distintivo Pnf». E tra di loro questi giovani intellettuali - che allora collaboravano alla rivista Il Saggiatore - strinsero un forte patto generazionale e li ritroveremo accanto a Pannunzio durante tutto l'arco della sua esistenza e dei suoi tentativi di trovare una casa a certi fermenti libertari. Nel 1933 lo scrittore e giornalista lucchese dà vita a Oggi, un settimanale che voleva essere un settimanale attento alla nuova generazione. Poi Pannunzio lascia temporaneamente il giornalismo e si appassiona al cinema, decide di misurarsi con la modernità della nuova industria culturale di massa. E quando, nel novembre 1935, Luigi Chiarini dà vita al Centro sperimentale di cinematografia Pannunzio si iscrive ai corsi convinto di aver trovato la sua strada. Sarà Leo Longanesi a "richiamarlo" al giornalismo reclutandolo tra i redattori di Omnibus inevitabilmente a Pannunzio viene assegnato il ruolo di cronista e critico cinematografico. Per uno strano gioco degli intrecci non fu forse un caso che a condurlo da Longanesi fu Primo Zeglio, suo compagno di studi e da anni collaboratore di Mino Maccari al Selvaggio. Il primo numero di Omnibus, il primo settimanale italiano nella logica del rotocalco che arrivò in edicola il 28 marzo 1937, andò a ruba arrivando a vendere più di 40mila copie. Pannunzio svolgeva le funzioni di caporedattore insieme all'amico lucchese Arrigo Benedetti e i due imparavano da Longanesi tutto: a montare il giornale, a scovare i collaboratori, a impaginare a scegliere le fotografie.
Comunque, anche quando Omnibus chiude i battenti l'avventura giornalistica di Pannunzio non avrà fine. Sempre in coppia con Benedetti recuperano la testata di Oggi e la mandano in edicola nel maggio del '39. E quando, nel '43, arriva la notizia dell'arresto di Mussolini, Pannunzio sta con gli amici di sempre alla solita saletta del caffè Aragno, qualche ora dopo si reca nella redazione del Messaggero e prepara un editoriale: «Occorre far fronte con profonda consapevolezza a una situazione di cui tutti comprendono le minacce, i pericoli, le difficoltà immani». Quell'articolo di fondo, «Per la Patria», lo battono a macchina Pannunzio e Benedetti con attorno Leo Longanesi, Mario Soldati, Ennio Flaiano, i sodali e amici di sempre, tra l'altro, senza - annota lo storico Raffaele Liucci - «alcuna accentuazione antifascista». Antitotalitario convinto, nell'agosto '44 Pannunzio scrive un'accorata difesa dei giovani fascisti che «hanno creduto appassionatamente. Ebbene è proprio per questo che su la maggior parte di essi pesa una condanna che toglie ogni ragione di vita. Troppi devono nascondersi, restare in disparte. Nessuno si alza a parlare in nome di un'intera generazione infelice e ripudiata».
Dopo il 4 giugno del '44, del resto, con l'arrivo degli alleati a Roma, il giovane Pannunzio avrebbe potuto far valere i propri titoli di antifascista. Invece preferì rimanere a dirigere Risorgimento Liberale, il foglio che da organo clandestino nel '43 divenne il periodico ufficiale dei liberali d'allora. Lì radunò alcune delle migliori firme del giornalismo fascista che aveva iniziato a frequentare negli anni Trenta nel celebre caffè Aragno: da Sandro De Feo a Vitaliano Brancati, da Ennio Flaiano a Mino Maccari. Quando, nel '62, Indro Montanelli si mise in testa di proporlo ai Crespi quale nuovo direttore del Corriere della Sera, Pannuzio quasi se ne risentì: «Ma non ti è venuto il sospetto che la semplice ipotesi che io lasciassi Il Mondo per venire a dirigere il Corriere fosse offensiva per me?».
«Ecco la lezione di Pannunzio - ha scritto Indro Montanelli - e se qualcuno ha ironizzato sul fatto che si suol dire che egli è stato "la nostra coscienza", quella frase è mia e la rivendico». Fu d'altronde lo stesso Montanelli a farlo riappacificare con il suo maestro vecchio maestro e mentore Leo Longanesi - dal quale apprese i rudimenti del "frondismo" - soltanto venti giorni prima della morte improvvisa di quest'ultimo a 52 anni. «Il Pannunzio degli ultimi tempi - ha ricordato Montanelli - era un uomo stanco, amareggiato e deluso. Eravamo delusi entrambi perché in fondo le sue battaglie erano state un po' anche le mie e i risultati non erano certo esaltanti. Mi ricordo che un giorno mi disse: "Vedi, al tempo del fascismo eravamo in pochi e diventavamo sempre di più, oggi siamo in pochi e diventiamo sempre di meno". Era una conclusione molto amara. Ripeto ancora una volta, non sono il suo erede. Vorrei esserlo».

Nessun commento: