L'ironia della storia lo farà arrivare il 27 ottobre del 1922 nella capitale, dove avrebbe frequentato le scuole fino all'università, in un treno traboccante di squadristi. Tanto che nell'Antipatico 1960, l'almanacco che pubblicava l'editore Vallecchi, pubblicherà una sua poesia rivolgendola al suo amico Maccari e a tutta la sua generazione: «Mino, ricordi la Marcia su Roma? / Io avevo dodici anni, tu ventuno. / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino, ricordi? Alle porte di Roma / ci salutammo. / Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m'ero tolto entusiasta il berretto / ricordi? Tu eri perfetto / nella divisa di bel capitano». Poi, dopo gli studi, gli anni della boheme intellettuale che gravitava tra il Caffè Aragno e Cesaretto a via della Croce, accanto a Cardarelli e (ancora) Maccari, Soldati e Steno, Pannunzio e Benedetti, Fellini e Zeglio. Li chiamavano gli "intellettuali da caffè": «Questa accusa mi è stata rivolta spesso - ricorderà lo stesso Flaiano - senza turbarmi troppo… le più belle serate le ho trascorse per anni nei caffè con persone la cui amicizia era già un giudizio: Cardarelli, Barilli e Longanesi. Mi è rimasto il debole di preferire il caffè al salotto, al club, all'anticamera…».
Leonardo Sciascia definirà questa generazione di intellettuali come gli «scrittori trentenni che guardavano altrove per guardare meglio dentro». Fatto sta che Ennio ricorderà: «Pannunzio e Longanesi ebbero un'importanza decisiva perché mi fornirono i mezzi per mettermi a scrivere. Aggiungerò, di cose di cui non sapevo assolutamente niente…». Flaiano infatti cominciò a scrivere su Omnibus. Poi, nel 1943, partecipa alla sceneggiatura del film di Leo Longanesi, Dieci minuti di vita con un cast di primo piano: Assia Noris, Alida Valli, Clara Calamai, Gino Cervi e Vittorio De Sica. Le riprese del film, avviate negli studi Titanus, dovettero però interrompersi l'8 settembre e lì per tutti si apre un'altra storia. Nel dopoguerra Flaiano, che si occupa di cinema a tempo pieno, si ritrova ancora con Longanesi, che è partito con l'avventura della casa editrice. E Leo rinnova a Ennio un vecchio invito a scrivere un romanzo. Ricorderà Flaiano: «Dovevo rivederlo a Milano, nel duro inverno del '46. Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: "Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?"». A questo invito seguì una lettera di Longanesi, del 27 febbraio dell'anno successivo: «Il termine massimo che le posso concedere è di una settimana o poco più, dovrebbe farmi avere qui a Milano il 12 marzo perché il 13 abbiamo il turno preso il linotipista…». Nel marzo del '47 Flaiano consegna Tempo di uccidere: vincerà il primo Premio Strega. Racconterà Fellini: «Quel rompicoglioni di Flaiano è proprio un rompicoglioni! Le sue cose da scrittore… e non lo smuovi… è pigro, è pigro. Scrive solo quando è costretto, quando ha bisogno di soldi. Ma quando avrebbe vinto il Premio Strega se Longanesi non lo avesse preso per finire il libro? "O scrivi o tiri le cinghia!". E ha scritto!».
Nel '49 Flaiano viene quindi chiamato da Pannunzio come caporedattore de Il Mondo… Ci rimane tre anni, prima di dedicarsi solo al cinema. Qui ritrova il suo vecchio amico e sodale Mino Maccari, l'ex direttore dello strapaesano Il Selvaggio che disegnava le vignette. E intanto nell'aprile del '54 Leo Longanesi, che continuava a scriversi con Flaiano, gli ricorda in una lettera gli articoli promessi per il suo Borghese e aggiunge: «Da I vitelloni non si potrebbe cavar fuori un libro? Il tema è buono e il libro si venderebbe molto. «Quando si mette a scrivere il secondo romanzo? Perché non manda nulla al Borghese?», si chiede tra sé e sé Ennio. Il fatto è che è troppo preso dal cinema e anziché scrivere per la rivista di Longanesi, come vorrebbe, deve partecipare alla sceneggiatura del film a episodi Villa Borghese… Quando nel '57 Longanesi muore, Flaiano scrive subito a Maccari: «Caro Mino, ero a Fregene quando ho saputo dai giornali la fine di Longanesi e ho pensato a te ch'eri suo vero amico. La sua morte è stata un dolore. E così, ogni giorno che passa scivoliamo sempre più verso la zona dell'ombra, confortati solo dalla volgarità del mondo che avanza, e che non condividiamo più…». Era questo Flaiano, anche quando diceva: «La mia vocazione era quella di non identificarmi. La mia generazione che ha vissuto il fascismo e l'arco democratico è assai curiosa: l'idea della vita con cui siamo nati noi abbiamo dovuto cambiarla in ogni momento».
Tutto cominciò in una birreria insieme a Leo...
«Ricordo di Ennio Flaiano», dipinto del suo amico e vecchio sodale intellettuale Mino Maccari
di Miro Renzaglia (nella foto)
Tutto ebbe inizio in una birreria, dove, per quei casi della vita che assumono i connotati del miracolo, del mito e poi della leggenda, Ennio Flaiano incontrò Leo Longanesi. I geni che, come sosteneva lo stesso Flaiano, non amano essere compresi, sanno però comprendersi benissimo fra loro. E Leo Longanesi riconobbe nell'altro non solo un pari genio, ma una mano narrativa che si era fin lì repressa. Come andarono le cose, lo racconterà lo stesso Flaiano quando, il 27 settembre del 1957, si trovò a scrivere per Il Mondo il necrologio dell'amico mentore: «Ho ricordato come l'avevo conosciuto, vent'anni fa [probabilmente, un lapsus: doveva trattarsi del 1946, quindi 10 e non 20 anni prima, come si legge, ndr] in una birreria dove, dopo quattro chiacchiere, mi disse: "Si metta a scrivere e non perda tempo". Me lo ordinò addirittura, senza spiegarmene le ragioni, che io non vedevo chiare. Era il suo modo di convincere i pigri e i delusi della mia specie...». Cronaca vuole che da quella perentoria esortazione, che dettava perfino i tempi della stesura in tre mesi, nascesse Tempo di uccidere, l'unico romanzo di Ennio Flaiano, passato però alla storia ufficiale della letteratura italiana come il vincitore della prima edizione del Premio Strega, nel 1947.
Tempo di uccidere viene spesso fatto spesso passare come opera memorialistica della personale vicenda del suo autore che, nel 1936, partecipò alla impresa della conquista etiope, con annessa critica all'epopea coloniale del regime fascista e all'insensatezza delle guerre. Non è così. O meglio: è così solo se ci si riferisce al contesto della trama narrativa. Ma, in questo caso, meglio che in Tempo di uccidere, Flaiano ha fatto con la sua teatrale La guerra spiegata ai poveri. In realtà la trama, in qualsiasi opera narrativa o teatrale che sia, è sempre e solo un semplice pre-testo per raccontare altro.
L'altro in questione sulle pagine di questo romanzo è la stessa anima del protagonista, il tenente Enrico Silvestri, che com-bacia al millesimo con quella di Flaiano. In questa chiave, tutto va interpretato in forma allegorica e/o simbolica. l'Africa (l'Etiopia): la terra promessa. La meravigliosa fanciulla etiope con-turbante di cui il tenente s'invaghirà, dal nome appropriato di Mariam: lo stato verginale e primigenio. Il suo ferimento accidentale e, poi, l'omicidio volontario per evitarne lo strazio dell'agonia: l'innocenza perduta. Lo spaesamento dell'assassino in una Massaua caotica e labirintica: lo smarrimento dell'io nel senso di colpa. La lebbra che Silvestri teme aver contratto dalla fanciulla concupita: la giusta punizione. I reiterati tentativi di omicidio e di furto che il protagonista compirà per sottrarsi alla giustizia terrena: la resa dell'individuo alla ineludibile malvagità umana. L'uscita dall'incubo della malattia, grazie alle rivelazioni del padre della fanciulla con-turbante: nemesi, catarsi e resurrezione.
Esagero, forse, nel privilegiare una lettura del testo in chiave di allegoria cristiano-escatologico? Macché: mica ce l'ho messa io in epigrafe al romanzo il passo del Qohèlet (più noto come l'Ecclesiaste) III, 3: «… tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di…», ce l'ha messa Ennio Flaiano stesso. E se non è una freccia direzionale questa, utile a indicare l'interpretazione che l'Autore vuole sia data alla sua opera, allora ditemi a che serve il peritesto. Semmai, dobbiamo chiederci a quale verbo alludano quei puntini sospensivi che chiudono la citazione biblica. Il libro dei libri riporta «demolire» ma proprio sull'omissione si apre l'incipit del narrato da Flaiano: «Ero meravigliato di essere vivo, ma stanco di aspettare soccorsi. Stanco soprattutto degli alberi che crescevano lungo il burrone, dovunque ci fosse posto per un seme che capitasse a finirvi i suoi giorni, Il caldo, quell'atmosfera morbida, che nemmeno la brezza del mattino riusciva a temperare, dava alle piante l'aspetto di animali impagliati. Da quando il camion s'era rovesciato, proprio alla curva della prima discesa, il dente aveva ripreso a dolermi, e ora un impulso che sentivo irresistibile (forse l'impazienza della nevralgia) mi spingeva a lasciare quel luogo. "Io me ne vado", dissi alzandomi. Il soldato che fumava soddisfatto, ormai pronto a dividere con me gli imprevisti della nuova avventura, si rabbuiò. "E dove?" chiese».
Eccolo, dunque, il verbo giusto con il quale Flaiano sostituisce il biblico «demolire»: «c'è un tempo per…» andare. Andare, andare e basta: il "dove" per qualsiasi viaggiatore (dico: viaggiatore, non turista) che si rispetti è solo una scusa per partire. Non ambire più ad alcuna mèta è la sua vera mèta. Il viaggio, e annessa ipotesi del ritorno, sono all'origine dei tòpoi della letteratura europea. Nel suo secondo monumentale invito alla lettura che Omero ci fece, all'alba della nostra civiltà, il mito dell'odisseo viene scolpito e descritto a fulcro dell'essenziale umano: metafora indefettibile dell'errare, in ogni senso dell'essere. Resta da incidere a chiare lettere "che cosa" si vada veramente a cercare, errando. Che, poi, è la domanda che ogni onesto errante (in tutti e due i sensi) deve farsi, qualunque sia la strada che prende. Io propendo per questa risposta: vai, conosci te stesso e dimentica chi sei stato fino ad ora. Mi sono di sostegno queste parole del romanzo: «L'aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso». Che si vada per geografie, infatti, non esclude che si seguano itinerari della Psyché. Anzi, se l'azione esterna produce effetti eco all'io che la mette in essere («Chi fa il male, lo fa soprattutto a se stesso», diceva qualcuno che ci vedeva chiaro...); quell'azione privilegiata che è l'errare (in entrambi i sensi) riconduce all'ente dell'essere l'eco di un'intera polifonica. Poi, è ovvio, sta al direttore d'orchestra armonizzare le note in sinfonia. Come fece Omero. Come ha fatto Flaiano.
C'è un altro errore da evitare nella interpretazione di questo romanzo: quello di un Flaiano tutto inscritto e aderente alla, come s' detto sopra: "escatologia cristiana". Ed è ancora lui, l'abruzzese a farcene accorti. Rimasto senza sigarette, il tenente Silvestri non si farà scrupolo di strappare dalla bibbia una pagina e rollarsela con i resti di un'oncia di tabacco. Come dire: tutto va in fumo. Tutto è: «vanità delle vanità…».
E, allora, tutto torna. Torna la sana scepsi di un Ennio Flaiano troppo smagato per poter appartenere ad una chiesa qualsiasi: «Noi viviamo - grazie a Dio - in un'epoca senza fede», il libertario che non sa che farsene dei dogmi, se non "fumarseli": «La verità, caro amico, dal momento che me la imponi, non mi interessa»); poi il relativista: «Certo, certissimo, anzi: probabile»; l'indipendente refrattario ad essere classificato nelle maniere della destra e della sinistra: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti»; torna, in assoluto, l'amante fedele alla religione della libertà. Torna, Flaiano, torna…
Perché non si vede all'orizzonte un nuovo Flaiano
È stato l'unico autentico dandy del '900 italiano: nessuno è riuscito a incarnare come lui l'immagine del senza-padrone e del senza-carriera
di Giuliano Compagno (nella foto)
Per dare un'idea di quale sia la reale distanza tra la nascita di Ennio Flaiano e noi, basti ricordare che essa coincide con la morte di Lev Tolstoj. In quei giorni di marzo del 1910, mentre lo scrittore pescarese viene alla luce, la lava dell'Etna ingoia in sé baracche e animali e il secondo governo del barone Sidney Costantino Sonnino vive la sua brevissima agonia. È molto più di un secolo, insomma, che Flaiano è nato: ci sono di mezzo una società e una cultura italiane che verranno stravolte a velocità ennesima. Eppure la sua parabola sembra persino resistere alla coincidenza di un approdo a Roma nel 1922, e la sua giovanile vocazione per il giornalismo gli fa da scudo, come se la carta stampata fosse il suo primo e unico vestito. Sono invece gli anni Cinquanta - e quella sua Roma «dilatata, distorta, arricchita» - a renderlo protagonista di un mondo il cui racconto non dimorerà soltanto su un foglio di carta stampata.
Quel Flaiano che se ne va nel 1972 appartiene a un'epoca che ci è altrettanto remota, sebbene molto più comprensibile. In quegli anni l'Italia è una vera e propria polveriera culturale e i tipi come lui sono dei paria del pensiero. Sono intellettuali che non scommetterebbero cinque lire sull'autenticità di chi dichiara di voler cambiare il mondo. Sono scrittori che non lesinano la loro ironia innanzi agli slogan e ai manifesti che traboccano sentenze e principii. Ma quel che li fa ancora più rari è il loro sentirsi diversi da ogni forma di ideologica visceralità. In quell'epoca, Ennio Flaiano è un anti-niente. Non odia, non disprezza, non minaccia. Si limita a licenziare ogni tanto una scheggia di ironia, così piccola da entrare nelle carni di chi legge e di restarci per sempre: «Vogliono la rivoluzione ma preferiscono fare le barricate con i mobili degli altri».
Micidiale, senza punto esclamativo, come un'osservazione neutra che contiene in sé tutta la malizia di un concetto. Perché c'è una sorta di saggezza ad agirlo, la medesima che pare essersi spenta con lui, per sempre, nel nostro paese. Dire di Flaiano che ci manca è una sciocchezza che non descrive il baratro che, dopo di lui, si è aperto. Sono 38 anni che attendiamo l'epifania di un uomo che abbia l'apparenza di un travet e la sostanza di un'intelligenza che brilli da ogni sua smorfia. Ed è trascorso altrettanto tempo, per noi, a sopportare l'affannoso verso di quei suoi epigoni che tentano di imitarne l'acutezza, la leggerezza, la libertà. Nessuno lo ha mai raggiunto così in alto da respirare l'aria sua. Nessuno è riuscito a incarnare nuovamente l'immagine di un senza-padrone, di un senza-carriera, di un protagonista della cultura così sublime da non farsi mai due conti o tre progetti con altri quattro gatti. Era più facile allora, si sa, ma era difficile anche allora. Il fatto è che non c'era modo di possedere Flaiano. Non era in vendita, non era in affitto. Era semplicemente un Bene Inalienabile. Ma c'è di più: c'è che Ennio Flaiano è stato l'unico vero dandy del Novecento italiano. Ne aveva la stoffa, la personalità, la naturalezza, e grazie a queste virtù egli ha saputo percorrere uno sdrucciolevole sentiero senza cadere mai. Era come se avesse il dono della "piega", quella sua innata capacità di dare alla trama della vita un impercettibile senso inverso. Quel che Flaiano lambiva con il suo sguardo e con il suo giudizio, immediatamente mutava in altro. La sua sola presenza nelle occasioni mondane (di cui pure diffidava) aveva il pregio di illustrarle; una festa senza Flaiano (e ve ne furono molte) era un evento fallito. Non si trattava di celebrare la bella nicchia delle arti e dello spettacolo, bensì di partecipare a quella società della conversazione che Giovanni Russo ha ben descritto nei suoi libri dedicati al vecchio amico. E d'altronde, la stessa inimitabilità di Flaiano attesta il suo dandismo. C'è in lui una distanza a tal punto assoluta da porlo in totale antitesi con le figure di snob che imperversano nella Roma di quegli anni: «Non ho capito bene il suo nome ma non ho alcuna difficoltà a crederle». In una recente intervista, Tonino Guerra ha voluto ricordarne un momento di fortissima intensità. Accadde in un mattino di primavera, che si stava recando a casa Flaiano per giocare a chi avesse più idee e, prima di annunciarsi, sbirciò dalla finestra e lo vide. Era seduto in poltrona, guancia a guancia con la figlia ammalata che gli stava tra le braccia.
La stringeva, insieme guardavano il cortiletto dinanzi, entrambi assorti in un amore reciproco e irraggiungibile. Allora Tonino Guerra usò la delicatezza di tornare sui suoi passi e di lasciare che quell'uomo solo e sofferente godesse di un'intimità che prevaleva su ogni possibile arguzia. Il suo genio infinitamente melanconico era svanito in un gesto di affetto, nella carezza senza parole di una mano che aveva posato la penna sulla scrivania.
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