Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 marzo 2010
Probabilmente non se lo immaginava nemmeno Santoro, quando lo ha invitato ad Annozero. La puntata era quella del 25 febbraio, incentrata sulla vicenda Morgan e, quindi, sul problema della diffusione della droga nella nostra società, innanzitutto ma non solo tra i giovani. Mauro Pagani, nato nel 1946 e con quarant’anni di attività ad alto livello nel mondo della musica italiana – a cominciare dalla PFM agli inizi degli anni Settanta e a proseguire, nel 1984 e insieme a Fabrizio De André, con quel capolavoro che è stato e che resta Creuza de mä – sembrava destinato alla parte del testimone, più che a quella del giudice. Avendo vissuto, e suonato, e trovato il successo nel pieno dell’epoca del “sex & drugs & rock’n’roll”, quando la cosa strana non era che i musicisti si drogassero ma che qualcuno di loro non lo facesse, poteva certamente rievocare con cognizione di causa quella lunga fase di exploit creativi e di eccessi d’ogni genere.
La domanda incombente era ovvia: l’uso degli stupefacenti regala l’ispirazione a chi l’ha persa e il talento a chi non lo possiede? La risposta era altrettanto prevedibile: no, niente affatto. L’ispirazione come illuminazione improvvisa che squarcia le tenebre e rivela di colpo fino all’ultimo dettaglio è una sciocchezza, una favoletta che serve ad aggiungere un tocco di magia a quello che è innanzitutto un duro lavoro di ricerca e di affinamento. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai, purtroppo, non c’è fumo o iniezione o pasticca che tenga. Puoi anche credere di essere Jimi Hendrix redivivo, mentre sei sotto gli effetti della sostanza di turno. Però non lo sei. Il modo in cui ti senti tu è una cosa. Il tuo valore effettivo è un’altra. Vedete, ragazzi? Non lo dice mica un professore che lo ha studiato sui libri. Lo dice uno come Mauro Pagani: uno che quello che non ha fatto in prima persona lo ha visto da vicino. Uno che è stato in mezzo all’incendio dell’anarchia rock quando le fiamme divampavano come non mai.
Ma poi è andata diversamente. Mauro Pagani ha iniziato a parlare ed è arrivata subito la sorpresa. Niente amarcord e molta analisi. I concetti al posto degli aneddoti. La visuale che si allarga a tutto campo e riduce l’esperienza diretta a un dettaglio biografico. Lasciamolo perdere, il rock: non è lì, la chiave. La chiave non è quella dei camerini delle star, o delle loro suite principesche, o delle loro case hollywoodiane. La chiave è nella società nel suo complesso. È nel degrado generale che ha ridotto l’etica a una parola desueta, e quasi irreale. La chiave è quella del caveau. Quella di ciascuna delle cassette di sicurezza in cui sono custoditi, e nascosti, i piani dello sfruttamento economico di qualsiasi attività umana. E dunque anche dell’arte. E, più specificamente, della musica.
«La musica – dice Pagani – è la seconda lingua che ogni nazione parla. Usa la lingua principale per parlare e la musica per esprimere anche il lato irrazionale e la parte migliore, animale, di sé. Proprio per questo noi dovremmo avere diritto e accesso obbligatorio, a scuola, alla musica, perché è una lingua che dovremmo imparare. È un diritto che compete a ogni bambino. Questa cosa ci permetterebbe di esprimerci e di raccontare quello che abbiamo da raccontare, e di assumere quelli che una volta si chiamavano “mezzi critici” per difenderci dai condizionamenti di massa.»
Detto in due parole: non ci stanno fregando solo dei soldi; ci stanno fregando l’anima. Ci hanno attirati dentro un baraccone che ha una miriade di entrate e nessuna uscita. È tutto coloratissimo, ma senza traccia di sfumature. Gli addetti sono tutti molto cordiali, ma con un che di meccanico. Sorridenti come venditori che ti blandiscono per mestiere, e intanto ti spiano per vedere se ti hanno convinto anche questa volta.
«Noi – prosegue Pagani – facciamo coincidere la nostra volontà di esprimerci e la volontà di esprimersi dei ragazzi con quello che l’industria produce, che è la merce. L’industria è diventata così autoreferenziale che ha costruito un sistema che passa attraverso un setaccio coi buchi rettangolari in cui passano solo gli oggetti rettangolari.»
Si chiama circolo vizioso: le cause generano degli effetti, gli effetti rafforzano le cause, che a loro volta moltiplicano e consolidano quegli effetti, che a loro volta... È un fenomeno tipico della comunicazione di massa. Una distorsione tipica di chi confonde la quantità con la qualità. La quantità degli spettatori e degli acquirenti, che ha rilievo solo ai fini commerciali, con la qualità delle opere e degli autori, che è l’unico criterio accettabile ai fini artistici e culturali. Il problema non è che ci siano anche delle trasmissioni frivole, delle canzoni sciocche e, persino, dei romanzi talmente inconsistenti da sprofondare nel ridicolo. Il problema si pone, e diventa inquietante, quando ci sono solo trasmissioni, canzoni, romanzi, film, e chi più ne ha più ne metta, che sguazzano nella banalità e che servono sì e no ad assicurare un po’ di svago superficiale. Un momento di oblio a chi crede che l’antidoto a una giornata stressante, o a una vita insensata, consista nello spegnere il cervello e nell’abbandonarsi al flusso delle sollecitazioni provenienti dall’esterno. La mente come uno spazio vuoto in cui riecheggiano, o rimbombano, le chiacchiere altrui. Emozioni di rimbalzo, senza nessuna possibilità di risposta. Di vera partecipazione. Di autentico scambio. Cibi in scatola da riscaldare nel microonde. Il ronzio indistinto dei pensieri vaganti. Un prologo al sonno. Al sonno, non al sogno.
Mauro Pagani, a differenza di Morgan, lo ha capito perfettamente. È partito dalla droga ed è risalito a ciò che le sta dietro: l’idea, così insita in un modello economico e sociale basato sul consumismo, che le soluzioni ai problemi si comprino bell’e fatte. E poi, ancora prima, e ancora peggio, la futilità di una vita istupidita. Comoda in superficie e frustrante in profondità. Incapace di ricordare, di sentire, che c’è più forza e più avventura in una camminata in montagna che in diecimila puntate dell’Isola dei Famosi. Più verità e più bellezza in una canzone che ti suoni da solo sulla chitarra acustica – e se sbagli pazienza – che in tutti gli show televisivi che stai a guardare come un allocco.
La domanda incombente era ovvia: l’uso degli stupefacenti regala l’ispirazione a chi l’ha persa e il talento a chi non lo possiede? La risposta era altrettanto prevedibile: no, niente affatto. L’ispirazione come illuminazione improvvisa che squarcia le tenebre e rivela di colpo fino all’ultimo dettaglio è una sciocchezza, una favoletta che serve ad aggiungere un tocco di magia a quello che è innanzitutto un duro lavoro di ricerca e di affinamento. Il talento o ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai, purtroppo, non c’è fumo o iniezione o pasticca che tenga. Puoi anche credere di essere Jimi Hendrix redivivo, mentre sei sotto gli effetti della sostanza di turno. Però non lo sei. Il modo in cui ti senti tu è una cosa. Il tuo valore effettivo è un’altra. Vedete, ragazzi? Non lo dice mica un professore che lo ha studiato sui libri. Lo dice uno come Mauro Pagani: uno che quello che non ha fatto in prima persona lo ha visto da vicino. Uno che è stato in mezzo all’incendio dell’anarchia rock quando le fiamme divampavano come non mai.
Ma poi è andata diversamente. Mauro Pagani ha iniziato a parlare ed è arrivata subito la sorpresa. Niente amarcord e molta analisi. I concetti al posto degli aneddoti. La visuale che si allarga a tutto campo e riduce l’esperienza diretta a un dettaglio biografico. Lasciamolo perdere, il rock: non è lì, la chiave. La chiave non è quella dei camerini delle star, o delle loro suite principesche, o delle loro case hollywoodiane. La chiave è nella società nel suo complesso. È nel degrado generale che ha ridotto l’etica a una parola desueta, e quasi irreale. La chiave è quella del caveau. Quella di ciascuna delle cassette di sicurezza in cui sono custoditi, e nascosti, i piani dello sfruttamento economico di qualsiasi attività umana. E dunque anche dell’arte. E, più specificamente, della musica.
«La musica – dice Pagani – è la seconda lingua che ogni nazione parla. Usa la lingua principale per parlare e la musica per esprimere anche il lato irrazionale e la parte migliore, animale, di sé. Proprio per questo noi dovremmo avere diritto e accesso obbligatorio, a scuola, alla musica, perché è una lingua che dovremmo imparare. È un diritto che compete a ogni bambino. Questa cosa ci permetterebbe di esprimerci e di raccontare quello che abbiamo da raccontare, e di assumere quelli che una volta si chiamavano “mezzi critici” per difenderci dai condizionamenti di massa.»
Detto in due parole: non ci stanno fregando solo dei soldi; ci stanno fregando l’anima. Ci hanno attirati dentro un baraccone che ha una miriade di entrate e nessuna uscita. È tutto coloratissimo, ma senza traccia di sfumature. Gli addetti sono tutti molto cordiali, ma con un che di meccanico. Sorridenti come venditori che ti blandiscono per mestiere, e intanto ti spiano per vedere se ti hanno convinto anche questa volta.
«Noi – prosegue Pagani – facciamo coincidere la nostra volontà di esprimerci e la volontà di esprimersi dei ragazzi con quello che l’industria produce, che è la merce. L’industria è diventata così autoreferenziale che ha costruito un sistema che passa attraverso un setaccio coi buchi rettangolari in cui passano solo gli oggetti rettangolari.»
Si chiama circolo vizioso: le cause generano degli effetti, gli effetti rafforzano le cause, che a loro volta moltiplicano e consolidano quegli effetti, che a loro volta... È un fenomeno tipico della comunicazione di massa. Una distorsione tipica di chi confonde la quantità con la qualità. La quantità degli spettatori e degli acquirenti, che ha rilievo solo ai fini commerciali, con la qualità delle opere e degli autori, che è l’unico criterio accettabile ai fini artistici e culturali. Il problema non è che ci siano anche delle trasmissioni frivole, delle canzoni sciocche e, persino, dei romanzi talmente inconsistenti da sprofondare nel ridicolo. Il problema si pone, e diventa inquietante, quando ci sono solo trasmissioni, canzoni, romanzi, film, e chi più ne ha più ne metta, che sguazzano nella banalità e che servono sì e no ad assicurare un po’ di svago superficiale. Un momento di oblio a chi crede che l’antidoto a una giornata stressante, o a una vita insensata, consista nello spegnere il cervello e nell’abbandonarsi al flusso delle sollecitazioni provenienti dall’esterno. La mente come uno spazio vuoto in cui riecheggiano, o rimbombano, le chiacchiere altrui. Emozioni di rimbalzo, senza nessuna possibilità di risposta. Di vera partecipazione. Di autentico scambio. Cibi in scatola da riscaldare nel microonde. Il ronzio indistinto dei pensieri vaganti. Un prologo al sonno. Al sonno, non al sogno.
Mauro Pagani, a differenza di Morgan, lo ha capito perfettamente. È partito dalla droga ed è risalito a ciò che le sta dietro: l’idea, così insita in un modello economico e sociale basato sul consumismo, che le soluzioni ai problemi si comprino bell’e fatte. E poi, ancora prima, e ancora peggio, la futilità di una vita istupidita. Comoda in superficie e frustrante in profondità. Incapace di ricordare, di sentire, che c’è più forza e più avventura in una camminata in montagna che in diecimila puntate dell’Isola dei Famosi. Più verità e più bellezza in una canzone che ti suoni da solo sulla chitarra acustica – e se sbagli pazienza – che in tutti gli show televisivi che stai a guardare come un allocco.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini
1 commento:
Che dire? Avete toccato le "corde" profonde del mio cuore: oro colato quel che ho appena letto.
Io nella mia vita di 50enne (tra pochi giorni 51) ho sempre anteposto la passione, anzi la passione in tutte le sue declinazioni - l'amore, la politica, gli amici, gli affetti, i passatempi - , alle convenienze e alle opportunità di un vivere più comodo e quindi in qualche modo più consumistico.
A chi, da ragazzo, mi diceva che ogni cosa e ogni uomo ha il suo prezzo rispondevo a male parole.
Io non ho un prezzo da contrattare, ho, come tutti, dei nervi scoperti: ad esempio la donna che amo è forse l'unica persona al mondo che può chiedemi praticamente qualunque cosa.
Insomma, gira che ti rigira, ritorniamo alla passione di cui sopra.
Certo avere le frequentazioni "politiche" giuste e qualche compromesso con la mia coscienza mi avrebbero aiutato nei momenti di difficoltà, ma avrei tradito la mia natura profonda.
A chi, come ad esempio il nostro premier, pensa che tutto si possa comprare rispondo citando l'episodio evangelico di Gesù che caccia in malo modo i mercanti dal Tempio.
Dopo aver combattuto per tanti anni, ai tempi gloriosi del FdG, il comunismo, è maturata da tempi lontani la convinzione che bisogna lottare con maggiore forza la morale consumista delle società capitalistiche (ora anche la Cina postcomunista vi si è accodata), che vorrebbe spegnere le coscienze, le emozioni, gli slanci, innalzando come suo unico totem il mercato, le merci, il business.
Ma gli uomini, per fortuna, sono anche molto altro.
Giovanni Fonghini
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