martedì 20 aprile 2010

«Bravi quei Beatles», la chiesa assolve il rock con 40 anni di ritardo (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 18 aprile 2010
Ultima puntata: il dieci aprile scorso, in occasione del quarantesimo anniversario dello scioglimento dei Beatles, l'Osservatore Romano ha pubblicato un lungo articolo su di loro. Il succo è che la bellezza della musica è talmente luminosa da dissipare ogni ombra. Non potendo ignorare certe "intemperanze", a cominciare dalla droga, gli estensori del pezzo, Giuseppe Fiorentino e Gaetano Vallini, le riducono al rango di bizzarrie giovanili, riunendole sbrigativamente in un elenco sommario e il più possibile neutro.
«È vero, hanno assunto sostanze stupefacenti; travolti dal successo hanno vissuto anni scapestrati e disinibiti; in un eccesso di spacconeria hanno detto persino di essere più famosi di Gesù; si sono divertiti a lanciare messaggi misteriosi - perfino satanici stando a improbabili esegeti - assecondando voci e leggende metropolitane sulla loro vita e anche sulla presunta morte di uno di loro». Ma tutto questo, in fondo, può essere scusato, un po' come la vita ancora più "scapestrata" di un Caravaggio, se non come quella ancora più autodistruttiva, fino al suicidio, di un Van Gogh. I Beatles «certo non sono stati il migliore esempio per i giovani del tempo, ma neppure il peggiore». E pertanto «ascoltando le loro canzoni tutto questo appare lontano e insignificante. Restano come gioielli preziosi le loro bellissime melodie che hanno cambiato per sempre la musica leggera e continuano a regalare emozioni». L'arte come riscatto, insomma. L'estetica come un mantello magico che occulta ogni difetto del carattere. Come una dimensione parallela, eterea e ultramondana, in cui le opinioni e i comportamenti dell'artista passano in secondo piano, o svaniscono del tutto. Le emozioni che, col tempo, si depurano del proprio legame col contesto in cui sono sorte e si liberano (si disfano) del significato che venne loro attribuito sia dagli artefici che dai destinatari, fino a perpetuare il loro fascino senza più chiedere a nessuno di confrontarsi con ciò che fu il loro humus e il loro habitat. La Marsigliese? Un motivetto trascinante, al di là delle circostanze in cui venne creata e in cui si affermò.
Dev'essere dura, scrivere di musica rock sull'Osservatore Romano. Il rock è fulmineo e istintivo. La Chiesa è cauta e dottrinaria. Il rock - quello vero, mica la sua imitazione industriale allestita dalle case discografiche e strombazzata dai media - fa i conti solo con se stesso, nella musica come nei testi, nelle interviste come nella gestualità sul palco (due modi di andare in scena, in effetti). La Chiesa deve tenere conto di una miriade di fattori e sforzarsi ogni giorno di trovare la quadratura del cerchio tra sacro e profano. Troppa tradizione, e rimani irrimediabilmente indietro. Troppi aggiornamenti, e perdi il tuo carisma.
Figuriamoci negli anni Sessanta, allora. Il rock esplode in tutto il mondo, dopo aver acceso i primi focolai negli Stati Uniti, e la Chiesa lo contempla con giustificata preoccupazione. Giustificata dal suo punto di vista, naturalmente. La Chiesa è innanzitutto magistero: indirizza i fedeli e spiega loro ciò che è giusto e ciò che non lo è. Il rock è innanzitutto libertà individuale: l'ultima cosa che desidera, che accetta, che apprezza, è che qualcun altro gli dica, gli insegni, gli imponga, quello che è consentito e quello che è vietato. Il rock azzanna la vita reale (e poi magari la sputa). La Chiesa pensa che la vita reale vada somministrata con attenzione e con misura a chiunque, e innanzitutto ai più giovani. Come una madre sollecita, e ingombrante, assaggia il cibo prima di consentire che il suo bebè lo metta in bocca. Si potrebbe scottare, il piccino. E sarebbe un peccato...
Negli anni Sessanta, tra gli altri, arrivano i Beatles. Elvis era stato travolgente, ma era rimasto un fenomeno soprattutto americano. I Beatles dilagano ovunque. Elvis era uno solo. I Beatles sono quattro. E il fatto stesso che siano un gruppo è di per sé un messaggio: l'unione fa la forza, e c'è posto anche per un comprimario non particolarmente dotato come Ringo Starr. Elvis era il fuoriclasse del rock and roll, e a parte qualche divagazione non ne avrebbe mai oltrepassato i confini. I Beatles, complice George Martin, si trasformano ben presto in un esperimento permanente, che nel giro di soli quattro anni li porta a passare dall'estrema semplicità di Love Me Do alle deliberate e consapevoli ambizioni di Revolver. Elvis esaurisce in fretta la sua carica "rivoluzionaria", come un ragazzo che sembra ribelle e invece sta solo cercando il modo di affermare il suo talento. I Beatles, specialmente grazie a John Lennon, rimescolano di continuo le carte del mazzo e provano a inventare nuovi giochi, più impegnativi e stimolanti. Più imprevedibili e significativi. Per loro stessi, ancora prima che per il pubblico.
Non è intrattenimento. È, o cerca di essere, arte. Qualcosa che si prende dei rischi e che aspira a essere compreso e condiviso, oltre che remunerato a suon di quattrini e acclamato a suon di applausi. Qualcosa che vuole trasmettere dei contenuti specifici, e che ci tiene a distinguere chi è davvero vicino, e lo sarebbe anche senza l'immenso battage, e chi si limita ad avvicinarsi richiamato dal gran clamore. Come disse John Lennon, al gala della Royal Variety Performance, «quelli dei posti economici battano le mani, gli altri basta che facciano tintinnare i gioielli».
Quarant'anni dopo, o giù di là, la stessa diffidenza nei confronti dell'establishment, ivi inclusa la Chiesa, la manifesta Ringo Starr. Qualcuno della Cnn va a riferirgli dell'articolo apparso sull'Osservatore Romano e gli domanda che ne pensa. La replica è lapidaria. «I couldn't care less». Non me ne può fregare di meno. E tanto per essere certo che le ragioni di tanto disinteresse non vengano scambiate per una generica indifferenza, aggiunge qualcosa di più: «Eravamo satanici e adesso ci perdonano? Credo che la Santa Sede abbia altre cose di cui parlare».
Infatti. Certi eventi, come l'incendio del rock, come l'apoteosi dei Beatles, li devi giudicare mentre accadono. E l'unico giudizio che ti qualifica è quello. Le rivalutazioni postume non servono, perché non hanno più nessun effetto pratico. Non c'è bisogno di scomodare l'Ecclesiaste, per sapere che c'è un tempo per ogni cosa.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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