giovedì 8 aprile 2010

Dalla & De Gregori: successo sì, ma senza emozioni a memoria (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 marzo 2010
Gli equilibristi sul filo, gli acrobati al trapezio, i domatori di bestie feroci, i giocolieri, i cavallerizzi, i clown. Fanno tutti parte del circo, ovviamente, ma non sono affatto la stessa cosa. Qualcuno rischia moltissimo, qualcuno solo un po’, qualcun altro per niente: il peggio che può capitare a un clown è che i bimbi non si divertano; il meglio che può accadere a un equilibrista che precipita, e che lavora senza rete, è di sopravvivere e di non farsi troppo male. Tutti quanti confidano in un applauso, e lo accoglieranno con un sorriso, o magari con un inchino, ma non tutti gli applausi hanno lo stesso significato. La stessa profondità. La stessa consistenza.
Lunedì scorso, su Raidue, è andato in onda il concerto che Lucio Dalla e Francesco De Gregori hanno tenuto la sera stessa al Teatro Camploy di Verona. La riunione, a più di trent’anni dal celebratissimo tour di “Banana Republic”, era annunciata da mesi. E il passaggio televisivo, in effetti, è stato il prologo (e come si dice in gergo “il promo”) della tournée che comincerà a maggio e che appare destinata fin d’ora a sfociare in un disco. E forse, o probabilmente, in un dvd. Chiedersi se sarà un successo è superfluo. Lo sarà senz’altro. Entrambi gli artisti godono di un largo seguito e, dopo così tanti anni di attività, durante i quali hanno inanellato svariati brani che si sono conquistati un posto permanente nella memoria collettiva, la loro fama si è stabilizzata fino a diventare un dato di fatto, definitivo e immutabile. Due “superstar”, per dirla all’americana. Due “icone”, per dirla nel linguaggio finto-colto della comunicazione di massa che commenta se stessa. E commentandosi si fa, si assicura, un altro po’ di pubblicità.
Parti da queste premesse – due superstar, due icone, un sodalizio che si rinnova a trent’anni di distanza da una collaborazione che fece epoca – e le conseguenze sono ovvie. Tutti a parlare di “evento”. Tutti in prima fila a dare pubblica dimostrazione del proprio entusiasmo. Tutti a scodellare i peggiori luoghi comuni col tono ispirato di chi esprime verità assolute e incontrovertibili. Sembra la Festa del Patrono: chi più luminarie ha, più ne metta. Chi non ha le luminarie può fare un’offerta e contribuire alle spese. Chi può sale sul palco e si fa bello al microfono. Chi non può ingrossa le file dei fedeli (dei fan) e si accontenta di partecipare in altro modo. Facendo, per così dire, di gestualità virtù. Batte le mani, sorride felice, agita le bandierine o i cappellini o le sciarpe e, oscurità permettendo, fa ondeggiare solennemente la piccola, ma suggestiva, fiammella dell’accendino. L’ideale sarebbe che cadesse direttamente in estasi, ma in mancanza del sommo deliquio va bene anche che ne manifesti i prodromi nel modo più palese e inequivocabile. Specie se ci sono le telecamere o le cineprese a immortalarlo. Lui è più contento e il filmato ne guadagna (e i produttori anche).
Scrive il Corriere della Sera: “vedere una grande coppia della musica, come Lucio Dalla e Francesco De Gregori riempie il cuore di gioia”. Commovente. Se non fosse che loro non sono mai stati, e non saranno mai, “una grande coppia”. Mica sono Simon & Garfunkel, che lavoravano insieme e – benché in maniera totalmente asimmetrica, visto che l’autore delle musiche e dei testi era Paul Simon mentre Art Garfunkel si limitava a cantare, sia pure con grazia sopraffina – concorrevano entrambi al risultato finale. È vero che Dalla e De Gregori hanno realizzato insieme qualche canzone, ma si è trattato di niente di più che di esperienze occasionali. Quasi un divertissement, di quelli che nascono dalle circostanze e che, venuta meno la situazione specifica, finiscono lì.
Magari lo si è dimenticato, sull’onda del clamoroso riscontro di pubblico che venne ottenuto e che superò le più rosee previsioni, ma il tour di Banana Republic non fu affatto un progetto artistico vero e proprio. Piuttosto una bizzarria, che spezzava le abitudini del tempo e che riuniva due artisti profondamente diversi in uno stesso show. «Erano anni particolari – ha detto lo stesso De Gregori nel 1996, in una lunga intervista al mensile Jam – la gente aveva voglia di musica, di ritrovarsi dopo il triste periodo dei black-out concertistici degli anni Settanta. Personalmente, ma potrei parlare anche per Lucio, vissi quell’esperienza come un normale e bell’avvenimento di spettacolo. Ricordo che avevamo due band ben distinte, che in certi momenti dello spettacolo suonavano insieme, creando un gran casino! [ride di gusto]. Suonare insieme è stato divertente, anche se quella non era la prima volta che ci esibivamo in coppia.»
Di questo si tratta: di esibirsi in coppia. Come musicisti-amici che si ritrovano alla stessa festa e che decidono di suonare e cantare insieme, accantonando tutto ciò che li differenzia e che, non a caso, ne tiene separate le rispettive carriere. La parola giusta è “divertimento”. Quella sbagliata è “autocelebrazione”. Purtroppo, a giudicare da ciò che si è visto lunedì sera in tivù, con quel clima da spettacolo televisivo che contagia il pubblico e lo rende fin troppo consapevole di poter essere ripreso in qualsiasi momento, il rischio che questa rentrée si trasformi in un’agiografia prefabbricata è cospicuo. E a scongiurarlo non basta nemmeno che loro due, i diretti interessati, non abbiano minimamente pensato a questo genere di obiettivo, quando hanno deciso di tornare a dividersi lo stesso palco non per una singola serata ma per un vero e proprio tour. Che per ora non è lunghissimo ma che, se tutto andrà per il meglio, potrebbe facilmente estendersi ben al di là delle attuali previsioni.
Dalla e De Gregori sono davanti a un bivio: da una parte c’è il rettilineo facile facile, che possono percorrere a occhi chiusi; dall’altro c’è un percorso più accidentato, più interessante, più impegnativo. Se andranno in scena soltanto per sciorinare i loro grandi successi, da La donna cannone a Caruso, da Rimmel a L’anno che verrà, sarà un’occasione sprecata sia per loro che per il pubblico. Saranno contenti lì per lì, ma non avranno appreso nulla di nuovo. Canzoni a memoria, da una parte e dall’altra. Emozioni a memoria. È un circo triste, quello che si accontenta di un ottimo incasso e di applausi scroscianti. È un circo inutile.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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