giovedì 27 maggio 2010

Ancora Rolling Stones, La sarabanda rock degli anni settanta (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 23 maggio 2010
Ma certo che è un'operazione di marketing: il solito collaudatissimo trucco del vecchio album che giace negli archivi e che viene riproposto (rimasterizzato, oh yes!) in una veste tutta nuova, che a colpi di contenuti aggiuntivi, e più o meno superflui, moltiplica l'originale in una serie di varianti sempre più "de luxe" - e sempre più costose, essendo risaputo che i fan sono pronti a tutto e che gli impresari e i manager non fanno niente per niente. A settembre dell'anno scorso era toccata ai Beatles: l'intera discografia riverniciata da cima a fondo da tecnici di prim'ordine e, sia pure nella totale indifferenza di Paul McCartney e Ringo Starr, immessa sul mercato come se si trattasse non solo di aver lucidato la superficie ma di aver scoperto nuove meraviglie che erano rimaste nascoste sotto l'imperfetto assemblaggio di un tempo. Il miglioramento tecnico, a dare retta al battage, che si innalza ad arricchimento artistico. Eccolo, il "vero" suono dei Beatles. Quello che nessuno, compresi loro stessi, aveva mai avuto modo di sentire...

Nel caso dei Rolling Stones, se non altro, l'operazione è circoscritta a un solo album e l'imbonimento è meno pretenzioso. Inoltre, visto che il gruppo è tuttora in attività e nel corso dei decenni ha accumulato più sbandate che accelerazioni, la scelta di recuperare uno dei dischi più importanti del loro primo periodo è del tutto legittima. Exile on Main Street, pubblicato nel maggio del 1972, è davvero un concentrato di ciò di cui erano capaci gli Stones dell'epoca. Già incardinati sull'asse Richards/Jagger, ma ancora lontani dall'aver trasformato la leadership in dittatura assoluta. E l'impronta creativa in un marchio di fabbrica. L'organico è quello classico a cinque, con la seconda chitarra momentaneamente nelle mani di Mick Taylor e la sezione ritmica che rimane affidata al basso di Bill Wyman e alla batteria di Charlie Watts. Ma i collaboratori esterni abbondano. E soprattutto, per fortuna, abbondano le digressioni in ambiti diversi, facilitate dal fatto che per la prima volta l'album è doppio e lo spazio a disposizione, quindi, consente di arrivare a oltre un'ora di musica.


Il risultato è una sfilata, una giostra, una sarabanda da diciotto brani. Per gli appassionati (o i maniaci) della catalogazione è un problema insolubile: una definizione sola non basta e allora se ne accostano una serie, "unificate" dall'immancabile richiamo al rock. Blues rock, Hard rock, Pop rock, Rock and roll. La tentazione è inevitabile, ma è figlia di un'abitudine che bisognerebbe imparare a tenere a bada. Le etichette appiattiscono. Vorrebbero dire tutto in un colpo solo, ma finisce che dicono solo tutto quello che non serve. O che non basta. Fissano i punti cardinali. A volte, non sempre, precisano l'esatta latitudine o longitudine. Okay. È indubbiamente utile sapere dove ci si trova. Può essere persino bello, per la sensazione di potere e di controllo che ti trasmette. Ma è mille volte meglio viaggiare, che limitarsi a riordinare le mappe. Mille volte meglio attraversarlo davvero, quel tratto di mare o di terra, che accanirsi a enumerare le coordinate dei percorsi tracciati da altri.
Infatti. Per chi se ne infischia della teoria e ha solo voglia di partecipare alla festa, quella varietà e quell'abbondanza sono un'occasione da prendere al volo. Un autentico spasso. Una serata da ricordare, e da rinnovare appena possibile. La casa è grande e piena di stanze, di corridoi che restano accoglienti anche quando non c'è nessuno, di scale che invitano a salire al piano superiore, da cui arrivano i suoni più avvolgenti delle "quasi ballate", o a scendere giù in cantina, dove ci danno dentro col repertorio più ritmato. La certezza è che dovunque si vada a finire, aggirandosi di qua e di là, qualcosa di buono e di interessante lo si troverà senz'altro. Anche senza saperlo, che questi 67 minuti sono il frutto di un lavoro che è proseguito per alcuni mesi e che si è svolto quasi completamente in una villa sulla Costa Azzurra, anziché in uno studio di registrazione affittato ad hoc, la sua matrice "domestica" balza all'occhio. Si intuisce l'andirivieni di gente (di artisti) senza orario. Si percepisce che non c'è stata nessuna fretta di arrivare alla conclusione. Non è mica un cantiere, con l'architetto che sa già tutto e il capomastro che trasmette gli ordini agli operai, ancorché valenti, che dovranno concretizzare quelle belle linee disegnate su un foglio. È un festival a porte chiuse, ma col palco perennemente allestito e sempre pronto ad accogliere chiunque abbia anche solo una mezza idea da proporre. È un esperimento che si può permettere il lusso di prendersela comoda. Sono tutte persone di talento, più che professionisti a contratto. Te lo dico io, amico. Qualcosa succederà, se gli dai il tempo di succedere. E il problema non è mai sbagliare strada. Il problema è se non sai riconoscere quella giusta quando finalmente ci arrivi, al primo tentativo o al millesimo.

Keith Richards, e non solo lui, si riempie di eroina e si stordisce di conseguenza, ma per quanto lunghe e ripetute quelle sue "assenze" sono pur sempre delle parentesi tra una consapevolezza e l'altra. L'istinto e il gusto, in lui, sono talmente radicati da restare comunque protetti. E infatti non lo abbandonano. Exile on Main Street è un album che ancora oggi mantiene inalterata la sua forza e il suo fascino. Anzi: semmai li accresce, stante la perdita di vitalità che si è prodotta da allora a oggi - e non certo solo in ambito musicale. Subissati come siamo di produzioni tanto accurate quanto insignificanti, e di pezzi che nessuno si sognerebbe di incidere se non fosse che spera di trovare qualcuno talmente sciocco da comprarli, immergersi nel suono "sporco" degli Stones è un piacere assoluto. E un'esperienza rigenerante. La loro ultima preoccupazione è di essere inappuntabili e di piacere a tutti. Il loro obiettivo è fare quello che vogliono, in questo specifico momento che è di per se stesso irripetibile (e che se non sarà vissuto pienamente non mancherà di fartelo pesare, un giorno o l'altro), e di vedere se c'è qualcuno che sa almeno tenere il tempo o anche solo divertirsi. Se proprio non ha ancora imparato, o non imparerà mai, a suonare a sua volta e a fare altrettanto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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