lunedì 17 maggio 2010

Ligabue, quel romanzo rock che racconta un mondo ancora da cambiare (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 16 maggio 2010
Prima fai di tutto per avere successo, poi scopri che non sono mica solo rose e fiori. L’involucro è attraente e i vantaggi sono indubbi, ma dietro tutte quelle seduzioni c’è il rovescio della medaglia: la popolarità è un piedistallo per un verso e una gogna per l’altro. È una casa di vetro in cui tutti si sentono autorizzati a guardare. E a giudicare. Ma in realtà non è affatto vero che tutta la casa sia trasparente e che ciò che si riesce a vedere dall’esterno sia tutto quello che vi accade. Per quanto enorme, per quanto così vasta da occupare l’intera facciata, la vetrata ricopre un solo lato. La persona che abita al di là di quella vetrata (di quella vetrina) vive in tante altre stanze che rimangono nascoste e invisibili. Certamente inaccessibili al pubblico. Forse, almeno alcune, inaccessibili a chiunque.
Ligabue ha dovuto sudare parecchio, prima di emergere. Fino al 1987, quando ormai aveva già 27 anni, non si era nemmeno affacciato sul mondo discografico. Alle spalle aveva solo una lunga serie di lavori occasionali, da operaio e da impiegato, inframmezzati da esperienze che erano anche interessanti, come il conduttore radiofonico e il consigliere comunale nella sua Correggio, ma che non erano arrivate a individuare una professionalità specifica e a prospettare un avvenire preciso. Luciano Ligabue era il classico giovanotto di belle speranze e di nessuna certezza. L’ennesimo talento ad alto, ad altissimo rischio di restare inespresso e di perdersi nel nulla, prima ancora di aver avuto la chance di provarci sul serio.
La sua fortuna fu Pierangelo Bertoli. Che nel 1988 decise di incidere Sogni di rock'n'roll, benché il brano non avesse nulla a che spartire col suo stile e i suoi temi, e che gli presentò quello che allora era il suo produttore, Angelo Carrara. Un paio d’anni dopo, nel maggio del 1990, uscì l’album d’esordio di Ligabue, che si intitolava semplicemente col suo cognome e che venne distribuito da una major come la Wea. Si cominciava con Balliamo sul mondo e si passava via via per Piccola stella senza cielo, per Non è tempo per noi e per Bar Mario. Nonché, ovviamente, per Sogni di R&R. Era fatta. O quantomeno era l’inizio – l’ottimo inizio – di quello che sarebbe venuto in seguito. Finalmente, a trent’anni compiuti Ligabue faceva il suo ingresso sulla scena musicale italiana. Non era un predestinato alla Paul McCartney o alla Elvis Presley. Era uno che si era formato il carattere e la personalità come accade a innumerevoli altri ragazzi, che crescono cavandosela da soli e che vedono gli anni trascorrere senza grandi exploit e la loro giovinezza dissolversi a poco a poco. Vita di provincia. Vagabondaggi interminabili nella periferia dell’anonimato, che a volte si rivela eccitante e più spesso si conferma noiosa, ma che in ogni caso rimane lontanissima dalle luci della ribalta e dalle celebrazioni dei media.
Il seguito è noto. Ligabue si è imposto come uno dei protagonisti più acclamati e durevoli. Eppure, nonostante questa permanenza ai vertici, persino lui ha accumulato una serie di amarezze e di fastidi. Lo dicevamo all’inizio: il successo è un’arma a doppio taglio. L’altra faccia della fama è la presunzione del pubblico. La convinzione che conoscere le canzoni equivalga a conoscere a fondo colui che le ha scritte. E che perciò lo si possa giudicare come uomo, oltre che come artista. «Ma ovviamente è un’impressione falsa. Io non sono rappresentabile neanche da tutta la mia discografia. Una persona non la racconti con cento canzoni. Nessuna persona la racconti con quello che ha fatto perché cambia di continuo.»

Ligabue ha ragione. E in questo nuovo album la sua insofferenza rompe gli argini e diventa uno sfogo da sei minuti, che riecheggia la celeberrima Avvelenata di Guccini e che si intitola appunto Caro il mio Francesco. Resta solo uno sfogo isolato, però. Nel suo insieme l’album non fa quasi nulla per indurre gli ascoltatori a scuotersi dalla consueta pigrizia. Arrivederci, mostro! assomiglia fin troppo al Ligabue che già conosciamo e, quel che è peggio, appare fin troppo interessato ad avere un suono immediato e di grande impatto. La cosa migliore, e non da oggi, rimangono i testi. E anzi, più che i testi da cima a fondo, alcuni spunti che emergono qua e là. L’impressione, ancora una volta, è che Ligabue abbia più frecce al suo arco quando scrive le parole, che non quando compone le musiche. L’impressione è che faccia male a ostinarsi nel replicare all’infinito un certo tipo di “rock song” che non va, che non può andare, oltre il risultato appena discreto di un intrattenimento non del tutto banale.
Alla fine, guarda caso, il brano più bello dell’album, è quello più lungo e meno “rockettaro”. È la toccante, delicatissima, drammatica Quando mi vieni a prendere?, ispirata a un terribile fatto di cronaca avvenuto nel gennaio dell’anno scorso. Un ventenne psicopatico entrò in un asilo di Dendermonde, una cittadina fiamminga a una trentina di chilometri da Bruxelles, e uccise a coltellate una maestra e due bambini, ferendone – e terrorizzandone – parecchi altri. Ligabue dà voce a uno di questi bimbi, senza che si possa sapere con certezza se è uno di quelli che verranno colpiti a morte dal folle omicida. Il canto ha le cadenze e l’intensità di un recitato. La musica poggia sul pianoforte e sugli archi. Le parole si impongono con tutto il nitore che serve. Costringendo anche i più distratti a prestare la dovuta attenzione. A soffermarsi. A riflettere. A guardare negli occhi la disperazione.
È questa la chiave. La chiave per chiudere fuori gli sciocchi e accogliere come si deve i migliori. Ligabue ha ragione, a lamentarsi di certe distorsioni dei nostri tempi, ma dovrebbe sapere che in parte dipende anche da lui. E che il rimedio è a portata di mano. Se è vero che la vetrata della notorietà non si può oscurare completamente, a pena di rifluire nell’oblio, si possono comunque spegnere i riflettori. Le fotoelettriche richiamano tutti. La fiamma di un camino attira solo chi ha davvero bisogno di scaldarsi, e magari ha accumulato abbastanza freddo e solitudine da averlo imparato: la porta potrà anche essere aperta ma quella lì non è mica casa tua. Accomodarsi davanti al fuoco è un privilegio dell’ospitalità. E l’ospitalità si basa sul rispetto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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