martedì 18 maggio 2010

Le due ruote come avventura: quando Malaparte cantava l'ode alla bicicletta e al Giro

Dal Secolo d'Italia di martedì 18 maggio 2010
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva posto la questione agli organizzatori già poche settimane dopo il sisma dello scorso 6 aprile: il 93esimo giro d’Italia dovrà passare per L’Aquila. E così sarà. Domani, intorno alle ore 17 e 30, i corridori arriveranno a L’Aquila da Lucera: una tappa tra le più lunghe – 256 chilometri – e soprattutto più dure. Prima di arrivare nel capoluogo abruzzese, il percorso toccherà altri centri devastati dal terremoto: Castelnuovo di San Pio delle Camere, San Gregorio, Onna, Bazzano, Paganica e Tempera. Un momento di festa atteso con la trepidazione che accompagna da sempre questo straordinario evento sportivo. Sin da quando non c’erano le tv ed erano giornali e radio a cantare le gesta dei grandi campioni. «Quando un gruppo di ciclisti si scaglia dietro quella invisibile lepre meccanica di freddo acciaio che è la vittoria, ci sentiamo sfiorare dal fiato caldo e vitale di un gruppo di uomini lanciati all’inseguimento del sogno più alto, della più nobile ambizione del genere umano. Perché ogni impresa sportiva è un simbolo». La testimonianza è di Curzio Malaparte in Coppi e Bartali (Adelphi, pp. 56, € 5,50), breve saggio pubblicato in Francia – dove lo scrittore visse dal ’47 al ’49 – giusto sessant’anni fa e recentemente ristampato.
Un colpo di fulmine, quello contratto in tenerissima età dallo scrittore toscano: «Guardate il profilo slanciato della bicicletta, elegante, essenziale, la sua linea perfetta, rigorosa come un teorema di Euclide, semplice e al tempo stesso capricciosa come la crepa incisa dal fulmine nello specchio azzurro di un cielo sereno». Che cosa c’è di più Machiavellico?, si domanda. «Ci chiediamo come possa stare in piedi ed ecco che lei prende il volo, in equilibrio su un invisibile filo d’acciaio, come un acrobata sulla fune. In silenzio trafigge lo spazio, in silenzio penetra nel tempo. Senza un briciolo di pudore, viola tutti i misteri del paesaggio, dell’orizzonte, della natura. Scivola sulla strada come sul filo di un rasoio, inclinandosi con grazia». Una vera e propria opera d’arte. «In Italia – recita l’incipit del libro – la bicicletta appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale, esattamente come la Gioconda di Leonardo, la cupola di San Pietro o la Divina Commedia. Ci si stupisce che non sia stata inventata da Botticelli, Michelangelo o Raffaello». Già, perché fu un inglese a “inventarla”, con disappunto del Curzio nazionale: «Non farò il suo nome. Un nome che un italiano non potrebbe pronunciare senza impallidire di rabbia».
Il primo incontro con il Giro e Giovanni Gerbi, il campionissimo di inizio secolo (il Diavolo Rosso evocato da Paolo Conte in una delle sue canzoni più belle), avviene nel 1906 su una strada piemontese: «All’improvviso, passandomi accanto, Gerbi allungò la mano, afferrò la bella paglietta italiana che avevo in testa e con un gesto fiero se la calcò sulla fronte madida di sudore. Quello fu il mio primo contributo personale al progresso del ciclismo. Avevo appena otto anni e, insieme al cappello, avevo già perso anche il senno, come tutti quelli della mia generazione». Solo il conflitto del ’14 poté strapparlo dalla sella: «Ci volle la guerra per farmi cadere dalla bicicletta. Mi rialzai nelle trincee della Champagne e quando, nel novembre del 1918, noi sopravvissuti tornammo a casa con il viso scavato e gli occhi colmi della vaga tristezza dei soldati vittoriosi, trovammo ad accoglierci un timido bagliore d’acciaio arrugginito, simile al lampo di felicità e pudore che fa arrossire il volto di una ragazza. Era il sorriso della nostra bicicletta, il primo amore della nostra generazione. Spettro fedele della mia infanzia, lei era là ad attendermi appoggiata al muro, pencolante sotto l’attaccapanni, accanto a mia madre che sorrideva tra le lacrime».
La guerra chiuse i giochi, ma né Coppi né Bartali, i due nemici fraterni, chiesero trattamenti di favore. Il primo fece la spola in bici tra Firenze e Perugia nascondendo nella canna documenti falsi che consentirono a molti ebrei di sfuggire alle persecuzioni. Coppi, arruolato nel 38° Fanteria e fatto prigioniero dai Topi del deserto di Montgomery, finirà per quasi due anni in un campo di prigionia a Medjez-el-Bab. «Altri (Pezzi, Martini, Milano e Carrea, sono andati con i partigiani – racconta Malaparte – mentre altri ancora (Magni) con le camicie nere».
Passata la guerra, la riconciliazione passa anche per lo sport. Quando il 14 luglio 1948 lo studente Pallante attenta alla vita di Togliatti, si teme l’insurrezione. È in quel momento che Alcide De Gasperi prende il telefono e chiama Bartali a Cannes: «Gino, puoi vincere il Tour?». «Sono indietro in classifica, ma la tappa di domani sì, la posso vincere». Manterrà l’impegno e il giorno successivo strapperà la maglia gialla a Bobert e i giornali radio daranno la notizia prima delle condizioni di Togliatti.
«Questa impresa – testimoniò Montanelli – funzionò realmente da calmante per i bollori e allentò la tensione». E domani, almeno per qualche ora, offrirà agli aquilani un po’ di quella serenità che ancora manca.

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