Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia di martedì 8 giugno 2010
Cultura sportiva. Se ne fa un gran parlare, la si invoca, appare quasi come un ossimoro. Due parole, «cultura» e «sportiva», che dovrebbero essere quasi la panacea dei mali del calcio, poiché negli altri sport non si sente la mancanza di cultura sportiva (Schiavone docet). Cultura sportiva, c.s.: se i giocatori di calcio guadagnano troppo è per mancanza di c.s.; se i tifosi di squadre avversarie si menano è perché non hanno adeguata c.s.; Calciopoli è figlia dell’assenza di c.s. Il calcio tutto, in fin dei conti, non ha c.s.
Probabilmente non si ha bene cognizione di cosa sia tale cultura sportiva, ma andrebbe utilizzata come antidoto ai veleni di un calcio moderno sempre più business e sempre meno gioco. Se poi si pensa agli esiti di Calciopoli le cose, addirittura, peggiorano: nuove intercettazioni, presunti scandali bis, morti che, in quanto tali, non possono difendersi. Veleni e ancora veleni, con schiere di tifosi che non aspettano che il martedì, questo compreso, per potere sperare in nuove pene, nuove sanzioni, scudetti restituiti o nuovi revocati. Questi anni duemila rischiano di diventare, così proseguendo, gli anni di piombo del calcio: all’avversario si sostituisce il nemico, la rivalità diventa odio. Un tifoso della Juventus muore a Torino accoltellato da un interista perché aveva insultato l’Inter, squadra poco italiana; alcuni ultras juventini, nel giorno delle celebrazioni del venticinquennale della tragedia dell’Heysel, e quindi nel giorno del ricordo dei propri morti, offendono gratuitamente i morti altrui, da Giacinto Facchetti, al Grande Torino perito a Superga. Qualunque cosa sia la cultura sportiva, certamente è anni luce lontana da frasi e posizioni del genere di quelle sopra citate. A perderci sembra proprio che sia il calcio.
Tutti pronti a tifare contro, eppure un tempo non era così. Giovanni Arpino, Edmondo Berselli, Vladimiro Caminiti: nomi che, possibilmente, a molti sembrano decontestualizzati. Eppure chi conosce il legame tra calcio e letteratura, che non è affatto recentissimo, può apprezzare il valore dei tre personaggi menzionati. Arpino era padrino di battesimo del figlio di Giacinto Facchetti, Gianfelice: “Giacinto Magno”, com’è noto è uno dei protagonisti del suo Azzurro tenebra. Darwin Pastorin, allievo di Arpino, ha sempre sostenuto che il suo maestro fosse di fede calcistica interista. Indro Montanelli lo riteneva provocatoriamente juventino. Lui, Arpino, una volta e per tutte si smarcò dicendo che non era tifoso, poiché la parola «tifo», in greco, significa nebbia. Il tifo annebbiava, eppure Arpino è stato testimone, come amava definirsi, delle gesta della Juventus per La Stampa, contribuendo non poco a dare dignità letteraria al calcio. Fine intenditore, pare sia stato sul punto di suggerire ai tipi del Torino l’acquisto di un giovane e promettente talento dell’Argentinos Junior, tale Diego Maradona, su suggerimento di Osvaldo Soriano, con cui per anni tenne una corrispondenza epistolare. Il rapporto tra Arpino e la Juventus – ma non solo, anche con Torino e il Torino – è oggetto di libro di Bruno Quaranta edito dalle edizioni Limina nel 1997, Stile e stiletto. La Juventus di Giovanni Arpino, al cui interno si trovano anche due poesie, una famosissima, dal titolo Me grand Turin, resa celebre dal verso iniziale «Rosso come il sangue/ forte come il Barbera/ voglio ricordarti adesso mio grande Torino». L’altra è invece dedicata alla Juventus, s’intitola Madama Juve: Arpino decantava la magniloquenza e lo “stile” della squadra bianconera, lui, il compare della bandiera nerazzurra Facchetti. Idiosincrasie che fanno saltare i clichés di oggi, quando bianconeri e nerazzurri non sono più nemmeno capaci di stare a parlare in un bar. Quello dello scrittore piemontese, istriano d’origine, non è un caso isolato. Anche il modenese Edmondo Berselli, scomparso recentemente, ha dato il suo contributo a fare saltare pregiudiziali “ideologiche”: tifosissimo della Juventus, migliore amico dell’interista Leo Turrini, ha dedicato un libro a Mario Corso e all’Inter degli anni Sessanta, Il più mancino dei tiri. Uno dei più bei libri di calcio mai scritti, con grande spirito critico e riferimenti contestualizzati a perfezione a Braudel, Hayek e altri intellettuali che col calcio, secondo alcuni, poco avrebbero a che fare.
Vladimiro Caminiti, infine: palermitano trapiantato a Torino, una vita a lavorare per Tuttosport, seguendo la sua Juve. Eppure un giorno qualcuno lo attacca, lamentando i troppi complimenti a Maradona e a Zenga. Gli dicono: «Ma che juventino sei?». Lui risponde sul Guerin sportivo, con una lettera passata alla storia, dal titolo “Dedicato e chi mi odia”, e rivendica la capacità critica del giornalista, anche di fronte alla propria squadra del cuore.
Saranno pure esempi d’altri tempi, secondo qualcuno, ma rendono bene il senso dell’esasperazione diffusa a cui si è giunti anche nel calcio. Quando diventa difficile perfino che un tifoso di una squadra, dica a un avversario: «Complimenti, avete vinto voi».
Giovanni Tarantino
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