domenica 6 giugno 2010

Clint Eastwood, l'uomo della frontiera dal cuore europeo, libertario e céliniano (di Federica Colonna)

Articolo di Federica Colonna
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 6 giugno 2010
«È proprio vero che non si vive mai abbastanza». La frase pronunciata nel film Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo!, deve essergli rimasta dentro, a quel duro di Clint Eastwood. Anche adesso che ha da poco - il 31 maggio - compiuto ottanta anni. Oggi la sua immagine è il Kowalsky di Gran Torino, ma all'inizio la sua icona era un'altra: sigaro in bocca, cappello calato in testa, sguardo di una luce fredda e nordica, intelligenza narrativa capace di ammaliare pubblico e critica insieme. Ecco il profilo dell'Eastwood internazionale, già tracciato nel '66 da Eli Wallach, in arte "il Brutto", con la foto del fascinoso Clint in mano: «Sto cercando un mezzo sigaro, con dietro la faccia di un gran figlio di cagna, alto, biondo e che parla poco!».
Col tempo poi, oltre al mutismo che molti uomini cercano invano di imitare ottenendo il risultato opposto allo sperato rimorchio, Eastwood ha confermato la capacità alchemica di non sbagliare mai un colpo. E che sia un colpo di pistola sparato in mezzo alla polvere o soltanto una metafora per i suoi numerosi film, poco importa. Perché, davvero, non si vive mai abbastanza se ogni pellicola, ogni interpretazione, ogni prova dietro la macchina da presa sono per Eastwood l'ennesima occasione per sorprendere. Con la disinvoltura di un professionista avvezzo al mestiere, l'"Uomo senza nome" degli esordi riesce a rendere generosa persino quella tipologia umana un po' spocchiosa che si annida corvina dietro l'algida etichetta "critica cinematografica" e a farle intonare un coro planetario pacificamente d'accordo sul fatto che sia sufficiente una lieve distensione di una ruga sul volto di Eastwood per raccontare immensi mondi intimi e infinite possibilità emotive. Eppure Sergio Leone sosteneva di apprezzarlo per quella sua limpida durezza, per quel volto quasi immune dalla gioia e dal dolore, come se la sua faccia non avesse mai avuto un'infanzia né una dubbiosa adolescenza: «Mi piace Clint Eastwood perché è un attore con solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello». Entrambe comunque perfette per fare di lui quell'icona dell'antieroe per eccellenza, dell'uomo libero, sempre animato da un profondo senso di giustizia e bertà, dedito alle cause perse, capace per di più di perderle tutte e tutte insieme senza per questo diventare melenso, senza dover chiedere mai pietà.
Un archetipo romantico del maschio da pubblicità di profumi, quello che "non deve chiedere mai". Clint, d'altronde, se proprio deve esprimersi, non invoca clemenza, ma, al contrario, più inflessibilità: come fa Joe, dopotutto, il suo personaggio in Per un pugno di dollari che intima, mai sconfitto, «al cuore, Ramon!». Il coraggio sempre, persino di fronte alla morte. Forse è proprio per questa ragione, perché nell'arco di una lunga carriera ha sempre mantenuto la capacità di rappresentare l'icona un po' algida del ribelle dotato di cuore e mai domo che Clint Eastwood è sempre piaciuto a una certa destra. Il giornalista Dante Matelli l'ha definito addirittura «nipote di Céline» e «anarchico di destra» per questo suo spirito avventuroso e libertario che l'ha piazzato bello dritto là, in mezzo all'immaginario epico di nostra signora post-modernità. Forse, poi, per il medesimo motivo il New Yorker e un pezzo di mondo liberal almeno per un certo periodo, di sicuro al tempo degli esordi, l'hanno considerato invece un po' troppo rozzo, un tipaccio da periferia americana, abile a mettere in imbarazzo i salotti metropolitani e capace di ricordare gli allevamenti di maiali dell'Iowa in ogni movenza, dal modo di sedersi a quello di guardare dritto negli occhi l'interlocutore. Eppure, alla fine, lungo il proprio percorso professionale, Clint Eastwood, uno che ama definirsi in maniera emblematica «un repubblicano con idee democratiche», è riuscito a far innamorare tutti, a destra ma anche a sinistra, americani ed europei, senza tradire mai se stesso. La formula alchemica di questo omone alto e dinoccolato, votato a una precoce carriera di nuotatore e custode di piscine per l'esercito americano, con un curriculum da taglialegna e operaio alle spalle, è in fondo tutta raccolta in una parola sola: ossimoro. Clint Eastwood sa, infatti, mettere insieme aspetti opposti della propria personalità come solo uno schizofrenico patentato saprebbe fare, ma senza dare segni di instabilità mentale. Unisce, così, in un solo mezzo sorriso sornione la sicurezza gelida dell'esordio a cavallo in Rawhide, serie tv sulle avventure di un gruppo di cow boys trasmessa dalla Cbs, e l'intelligenza emotiva del suo Mandela, nel raffinato e recente Invictus.
Ed è lo stesso Mandela cinematografico, interpretato da Morgan Freeman, a sintetizzare in una frase il "Clint factor", l'elisir del successo, l'elemento caratterizzante l'ascesa costante di Eastwood: «Sorprenderli con la generosità, con la comprensione». Ecco cosa fa il tipaccio, allora: sorprende. Nel film Mandela pronuncia la frase per motivare la scelta di investire molto in termini politici ed emotivi sulla nazionale di rugby del Sudafrica nel tentativo di costruire lo spirito nazionale di un popolo profondamente diviso, quasi irrimediabilmente scisso, capace però di trovare nel percorso verso la vittoria un senso di comunione nuovo e vitale. Ma la stessa frase potrebbe sintetizzare il profilo umano e professionale di Eastwood, descritto come un ossimoro perfetto, una equilibrata sintesi di sorpresa e normalità anche dal critico cinematografico Gianni Canova: «Ogni volta che lo vedi senti che è un uomo differente da tutti quelli che ha interpretato in passato - scrive - ma senti anche, al contempo, che è lo stesso uomo. Capace di attraversare la vita con la duttilità necessaria a non farsi travolgere, ma restando sempre fedele a se stesso e al proprio rigoroso codice morale. Ci senti la solitudine di un antieroe che ha raccontato in ogni suo film la difficoltà dell'uomo di stringere legami con i propri simili». Evoluzione e fedeltà, quindi, cambiamento e continuità insieme. Eastwood è passato tra innumerevoli mutazioni senza negare mai la propria coerenza intima, il proprio vocabolario emotivo, anzi traendo nuova forza e fertile linfa vitale da quelle trasformazioni incessanti. A tenere insieme tutto, a fare da collante nell'esperienza cinematografica e in quella personale, è un certo amore per la libertà e per l'individuo singolo e reale. Un amore profondo, una dedizione che ha coltivato durante tutta una vita e che l'ha portato, da giovane attore, a costituire la casa di produzione "Malpaso Production", dopo appena quattro anni di carriera nel cinema, con l'obiettivo di assicurarsi uno spazio d'espressione scevro da ogni tipo di condizionamento esterno. Dopotutto lo ammette con quella semplicità consona a un uomo di poche parole: «Esiste una figura di fantasia in quest'epoca di burocrazia, vita complicata, tasse sui redditi e politica ed è quella di un uomo che riesce a fare certe cose da solo. Questo tipo di fantasia ci sarà sempre… mi piace l'individualismo». È evidente: dell'epoca col sigaro e la pistola Clint apprezza una certa genuinità, una sorta di limpidezza che rende i codici espressivi più chiari, diretti, più puri. Liberi, di certo.
Eppure la vocazione di Eastwood per una semplicità quasi rude, a volte tradotta in un lessico da fattoria appena fuori Des Moines con la bandiera a stelle e strisce ben piantata in veranda, è carica di umanità e di emozione. Clint Eastwood è un uomo in cammino, compie senza sosta un viaggio senza essere partito con una meta predefinita. Percorre le strade del cinema senza tom tom in mano. Come un Ulisse postmoderno, i suoi film, le sue idee, i suoi personaggi, da "il Buono" degli spaghetti western fino a Walt Kowalski, protagonista di Gran Torino, sono declinazioni di una ricerca umana senza sosta, senza fine forse. Una sorta di Diogene contemporaneo con la lanterna sempre accesa in mano, per cercare l'uomo. «Ogni sua pellicola - commenta Roberto Saviano nella recensione al Mandela del grande schermo - è necessaria. Sembra, il suo, un percorso che cerca nelle storie un modo per ordinare il mondo, per chiarirsi le idee. Un catalogo di vicende che come in Million dollar Baby o Lettere da Iwo Jima non stanno a raccontare come dovrebbe andare il mondo, ma come lo fanno andare le persone, gli individui, attraverso ogni loro scelta. Che sia giusta, falsa, marcia o vera. È l'individuo che Eastwood racconta». Eastwood, allora, non racconta la storia, non narra le epoche, non descrive l'uomo. Racconta, invece, le storie, quelle buttate là agli angoli delle strade e che aspettano di prendere una forma compiuta, che mettono insieme miseria e coraggio, piccola quotidianità e capacità di sacrificio, quasi estrema. Narra i giorni, non quelli epici, ma quelli vissuti, masticati e mal digeriti, affogati dentro una birra oppure luminosi e pieni di amorevole speranza, come in un pomeriggio a Madison County. Descrive gli uomini, li va a cercare, a interpretare, sapendo che, nella immensa diversità di caratteri, scelte e personalità, si cela sempre una costante: la curiosità che ogni essere ha per la vita e quel modo insieme eroico e dubbioso che ha di viverla. Eastwood, in fondo, è estremamente politico, senza aver avuto la pretesa di rappresentare storie prettamente politiche, ma vicende umane, anche minime.
In quest'epoca di profondi mutamenti, di mescolamenti e incontri nuovi tra culture, religioni, filosofie e visioni, riesce ad essere l'interprete di una politica normale, auspicabile, quasi; quella che cambia se stessa al cambiare dei tempi, che cerca di capire e non smette mai di mettersi in gioco, provando sempre codici nuovi e soluzioni, anche narrative, inedite. La politica incoerente all'apparenza e che cambia idea, persino. Come dice Joe in Per un pugno di dollari della trilogia di Leone: «Decido io quando cambiare opinione!». In fondo anche questa è libertà, anche questo è il modo per evolvere, restando sempre fedeli a se stessi, alla propria ricerca, al senso del proprio viaggio, del proprio incessante percorso. Fosse anche quello che porta a trasformarsi da un antieroe brutto e cattivo a un uomo dialogante e dubbioso e per il quale: «I tempi andati sono stati bei tempi, l'importante è averli vissuti», come dice Robert, in I ponti di Madison County. Ora basta, è il momento di guardare oltre. Come fa Clint, dopotutto, con quell'occhio vitreo che ha scrutato nel profondo di tante anime, di tanti bicchieri di wisky e nella gonella di tante donne sedotte.
Federica Colonna
Il blog di Federica Colonna è POLITICAL SMARTIES

La sua rubrica su Ffwebmagazine è LOGOPOLIS

Nessun commento: