Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 6 giugno 2010
Un manager che la sapesse lunga gli consiglierebbe di riconsiderare il suo atteggiamento, quando scende dal palco. La gentilezza è un pregio, ma essere troppo alla mano rischia di dissolvere il fascino - sempre un po' misterioso, sempre un po' inafferrabile - dell'artista in generale e della rockstar in particolare. Raccontarsi in lungo e in largo va benissimo, ma a patto che si tratti appunto di un racconto: in cui ogni dettaglio viene valorizzato come merita, coi colori delle emozioni e il nitore della consapevolezza. Non si tratta affatto di darsi delle arie e di romanzare a ogni costo la routine. Si tratta solo di non esagerare nemmeno in senso opposto, fino a banalizzare tutto quello che ti è accaduto e che ti accade. Fino a scavare un abisso incolmabile tra la sensibilità che riversi nelle canzoni e la (apparente) noncuranza con cui parli della vita dalla quale sono sorte.
Come si spiega? Timidezza, probabilmente. O un certo genere di pudore, per cui si ama a tal punto quello che si fa che si cerca di proteggerlo parlandone con un eccesso di nonchalance. Le ambizioni dichiarate innescano l'invidia. La sicurezza, spesso, il malaugurio. A un certo punto Davide Combusti deve averlo appreso, o intuito, e quindi si regola di conseguenza. Se gli chiedono di "The Niro" minimizza. È andato a suonare negli Stati Uniti? Sì, ma è stato per un insieme di coincidenze. Nel 2006 ha aperto il concerto romano dei Deep Purple? Sì, ma forse è perché in quel momento non avevano nessun altro sotto mano e lui, invece, era libero e disponibile. E se gli fanno qualsiasi altra domanda, di quelle generiche o estemporanee come ne fioccano nella maggior parte delle interviste "usa e getta" realizzate da giornalisti, conduttori e presentatori più o meno improvvisati, la risposta è immancabilmente cortese, quasi sollecita. Come un musicista di valore che si ritrovi a suonare con degli strimpellatori di infimo livello e, pur di non metterli a disagio, si adatti al loro incedere sbilenco. Che c'è di male, in fondo? È solo un passatempo come un altro. E per uno come lui, che il primo disco lo ha inciso a 29 anni e che, sia prima che dopo, ha suonato senza batter ciglio in ogni locale e localetto in cui lo chiamassero (sette persone? pazienza; magari poteva andare che non c'erano neanche quelle), adattarsi alle circostanze è la regola. Tolte le sue canzoni, e le sue esibizioni in prima persona, su tutto il resto si può transigere. È uno dei pochi vantaggi dell'aver fatto dei lavori di cui non te importava un accidente: dopo diventi più elastico, riguardo ai fastidi connessi a quello che ti interessa davvero. Sai che si fa presto a tornare indietro. Sai che può andare tutto a puttane in qualsiasi momento, se il diavolo ci mette la coda.
«Mio padre suonava la batteria. Nel ‘73 andò a Lione per dar vita a un gruppo italo-francese, La Somma. Il sogno durò poco: il cantante decise di mollare e tornare a Roma. Mio padre, per la delusione, decise di spegnere la musica. Per quindici anni non ha ascoltato e suonato nulla. Io sono cresciuto guardando in casa quella batteria abbandonata. Per raggiungere la grancassa salivo su una scatola di scarpe. Papà mi diceva: "Non t'innamorare della batteria, sarà il primo strumento a essere eliminato"».
Davide non gli ha dato retta, naturalmente. Si è innamorato e ci ha dato dentro. Pestare sui tamburi è un piacere fisico, se sei abbastanza in gamba da permettertelo. Davide se l'è spassata. E se capita se la spassa ancora. Però non si è fermato. Ha cominciato a suonare anche la chitarra. Il basso. Le tastiere. Ha scoperto di avere dentro della musica che valeva la pena di ascoltare. Ha scoperto di avere delle parole da cantare. E una buona voce - una voce che al primo impatto ricorda molto, benché senza alcun dolo, quella di Jeff Buckley - per cantarle egli stesso. Ha scoperto che non è vero che l'unico modo per imporsi è seguire la corrente. A volte, mica sempre, c'è chi è abbastanza libero da scegliere di testa sua. Davide, che nel frattempo si era ormai reinventato come "The Niro", si è affidato alla Rete e si è messo in mostra attraverso Myspace. Una scommessa difficile. In qualche modo, una scommessa vincente.
Il suo primo disco è apparso all'inizio del 2008. Un "extended play" da quattro brani. Per saggiare il mercato. Per aprire la strada all'album d'esordio, che è arrivato nella primavera successiva e che ha ufficializzato l'apertura della sfida, sempre più pressante, tra la libertà dell'artista e i conformismi del mercato. Che piacesse oppure no, The Niro aveva dalla sua un titolo di merito indiscutibile: non faceva nulla per assecondare le tendenze dominanti. Come ha detto egli stesso, «vorrei che non si pensasse troppo a fare cose che si pensa possano piacere agli altri. Deve piacere innanzitutto a te. Devi avere un grande piacere nel suonare quello che ami, di modo che, forse, riesci a trasmetterlo meglio agli altri». In una realtà che va perennemente a caccia di singoli di successo, e che perciò si è convinta che il requisito essenziale sia l'immediatezza, The Niro è una presenza anomala. Canta in inglese per convinzione assoluta, e non solo in vista di una possibile proiezione internazionale. Compone brani affascinanti che a suo tempo sarebbero apparsi tutt'altro che ostici ma che oggi, nella pochezza delle abitudini attuali, hanno bisogno di un po' di tempo, e di ascolti ripetuti, per farsi apprezzare appieno. Trova la sua dimensione ideale nell'album, come un narratore che scrive racconti (racconti: non sketch) e che però ha bisogno di riunirli in uno stesso volume, affinché si rafforzino e si completino l'un l'altro.
Il primo passo è stato promettente. Il secondo, che si intitola Best Wishes, lo è a sua volta. Un pizzico in meno di suggestione, anche perché il fattore sorpresa si è giocoforza attenuato, e un po' di brillantezza in più. The Niro mischia le carte con una disinvoltura che qualcuno potrà trovare sospetta, ma non significa affatto che stia barando. È che gli piace giocare. E nel novero dei suoi giochi preferiti c'è anche qualche numero da prestigiatore, tanto spettacolare quanto compiaciuto. Ma non li fa per trarci in inganno. Li fa per provare a divertirsi, a emozionarsi, a gioire, insieme a noi.
Scelti per voi: intervista e video.
Scelti per voi: intervista e video.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
Nessun commento:
Posta un commento