lunedì 14 giugno 2010

Hubert Selby, il marinaio che per 50 anni ha preso a schiaffi gli Usa (di Domenico Paris)

Articolo di Domenico Paris
Da l'Occidentale di lunedì 14 giugno 2010

A sedici anni, tutto quel che si vuole è che i propri sogni viaggino in sella al vento e riescano a spingersi il più lontano possibile; a sedici anni, il concetto di futuro è quello di un eterno presente in cui non si riesce mai ad invecchiare e in cui le forze, fisiche e intellettuali, non vengono mai meno di fronte alla vita; a sedici anni, la fatalità è soltanto una parolaccia utilizzata dai vecchi, troppo invidiosi del tuo poter partire e troppo stanchi del loro approdo triste e definitivo. Nessuna fatica, dunque, nel piantare in asso la scuola e il noioso percorso "d’onori" che essa sembra promettere per tentare un salto nel vuoto, tra le nuvole soffici del mistero e i cieli azzurri dell’occasione... 
Per un giovane americano degli anni Quaranta la scelta di evadere dalla solita routine, nella maggior parte dei casi, si concreta in due direttrici principali: oltrepassare i confini della legge, sulla scorta della propria rabbia e sulla fascinazione subita da una sterminata letteratura di antieroi e criminali made in Usa; oppure, tentare la fortuna nel più classico solco della tradizione, prendendo cioè la strada del mare. Hubert Selby junior, eludendo maglie burocratiche e impedimenti anagrafici, trova posto nella marina mercantile del suo paese nel 1944. L’incanto della vita sulle navi, con tutta la sua dura e romanticissima poesia quotidiana, lo affascina in modo irresistibile, come un canto di sirena, così come la possibilità di salpare via, a migliaia di chilometri dalla natìa Brooklyn per andare incontro a un mondo tutto nuovo, tutto da scoprire. Frequentare i tipacci dei docks, girovagare nei porti d’Europa rischiarati dalla luce dei lampioni e della luna, fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con le donne e gli uomini più veri che si siano mai incontrati, alzarsi la mattina e sapere che dietro l’angolo c’è sempre un’altra sorpresa… Questa è vita! E però, per quanto si possa essere giovani e intrepidi, per quanto si possa avere il cuore gonfio di emozione di fronte a tutto ciò che la quotidianità potrebbe regalarti, non si sfugge alla propria cattiva stella. Soprattutto quando si manifesta sotto forma di una tubercolosi devastante nel bel mezzo di un viaggio in Germania.
Il giovane newyorchese viene ricoverato d’urgenza a Brema nel 1947 e, di fronte alla virulenza della malattia, i medici che lo curano, pur riuscendo nel difficile compito di salvargli la pelle, non possono certo fare miracoli. Un polmone se ne va, asportato del tutto, così come un certo numero di costole, rimosse per riuscire a portare a termine l’intervento chirurgico. Vivo, okay, ma per poco. Le previsioni più ottimistiche non vanno oltre l’anno di sopravvivenza e, ovviamente, la favola del giovane marinaio si chiude per sempre, con un ritorno a casa che ha il sapore amarissimo non soltanto dell’ultimo viaggio, ma con ogni probabilità dell’approdo nella tomba. Gli anni che seguono sono un calvario senza fine né ragione. Alle continue, sfiduciate corse in ospedale, si intersecano risvegli e salvezze che non regalano alcuna gioia, ma anzi sembrano soltanto ulteriori scherzi della sorte, decisa a giocare col ragazzo come fa il gatto con il topo. Selby jr tiene duro senza neanche sapere perché. È un condannato a morte che cammina, non ha arte né parte e anche quel poco di affetto che può ricevere dalla sua famiglia non riesce certo a risolvere le cose. Lavori e lavoretti si susseguono ritmandosi (stonati e in assoluto controtempo) con le tremende ricadute della malattia, negandogli spesso il decoro di una vita completamente autosufficiente. Insomma, non soltanto il non avere niente, quanto la mancanza più assoluta (e più realistica) di speranza.
Ridotto al grado zero del suo essere, umiliato nei suoi tentativi più estremi e coraggiosi, non gli rimane che affidarsi ad un’ultima follia, ad un’equazione che nella sua elementarità sembra promettere soltanto un altro vicolo cieco: conosco l’alfabeto? Forse potrei diventare uno scrittore. Sembrerebbe l’ennesima storia dell’ennesimo disperato a stelle a strisce che vuol giocare a fare il Jack London della situazione e finisce male. E invece no, Selby jr ci sa fare e dopo aver pubblicato qualche racconto su alcune riviste, nel 1964 riesce finalmente a mettere insieme un libro intero con un editore. Un’opera prima che, sia detto subito e senza alcuna esitazione, risulta ancora oggi seminale nella storia della letteratura americana contemporanea.
The Last Exit to Brooklyn (che da noi uscirà solo nel 2000 come "Ultima fermata a Brooklyn") contiene già tutta la feroce cifra stilistica del narratore, che aggredisce la pagina con la sua scrittura veloce e scabra, nella quale si riconosce una mimesi della lingua parlata, che non ha nulla dell’ "esperimento" narrativo o del divertissement letterario con il quale tanti illustri predecessori hanno provato a baloccarsi spandendo umanitarismo di bassa lega, ma si propone invece come un tentativo, forse il più estremo fino ad allora, di portare sulla pagina la voce più vera e dolente dei bassifondi metropolitani e dei suoi abitanti. A questo si aggiungano storie forti, fortissime, di fronte alle quali lo scrittore non cerca mai di edulcorare o, in qualche modo, frenare il disvelarsi della realtà più cruda e sconvolgente, limitandosi a dipanarne gli intrecci come una sorta di implacabile maestro di nodi. "Anche questa è l’America, ragazzi!" sembra dirci "E qui non ci troverete proprio niente del sogno e delle utopie delle quali si va cianciando in questi anni". Sì, perché non bisogna dimenticare che il libro viene pubblicato nel cuore dei favolosi Sessanta, quando molti sono convinti che presto tutto cambierà e non ci saranno più ingiustizie e brutture.
L’estabilishment culturale dell’epoca accusa il colpo come fosse una sventola del miglior Marciano e, se non sono pochi coloro che si entusiasmano subito e sinceramente all’opera riconoscendone l’inusitata freschezza stilistica e la debordante profondità degli assunti ideologici, sono comunque di più quelli che arricciano il naso e cercano di sabotarne il successo. Ancor peggio fa un oscuro rappresentante del partito conservatore inglese, il quale trascina Selby jr in tribunale con l’accusa d’oscenità per le descrizioni troppo crude dell’omo-transessualità e per la brutale rappresentazione di certo degrado domestico e del mondo della droga. La droga, già… Lo scrittore, forse anche per alleviare le condizioni di disagio psicofisico indotte dalla malattia e dai continui ricoveri, comincia a fare un uso sempre più massiccio di sostanze stupefacenti, in particolar modo di eroina, per il possesso e consumo della quale viene più volte rinchiuso in carcere. Per fortuna, non tutto va a rotoli. L’albionico viene sbugiardato in tribunale e il bardo di Brooklyn riesce a scappare dalla Grande Mela verso Los Angeles, dove trova finalmente, oltre a condizioni di vita migliori, anche il vero amore nella persona di Suzanne, che diventerà sua moglie e gli darà quattro figli.
Gli anni Settanta lo vedono impegnato in varie collaborazioni con riviste e anche come docente di scrittura creativa presso la University of Southern of California. Questo, naturalmente, non gli impedisce di dedicarsi alla scrittura e, dopo aver pubblicato The Room e The Demon, nel 1978 firma quello che, probabilmente, può essere considerato come il suo capolavoro, Requiem for a Dream ("Requiem per un sogno", da noi). Lo stile di Selby jr raggiunge in queste pagine il proprio vertice espressivo, con un’opera di assoluta, spietata distruzione degli stilemi della narrativa classica. Niente dialoghi virgolettati, nessun a capo, paragrafi da estrapolare con pazienza facendo attenzione a non incrociare gli occhi e a tener dietro alla frenetico continuum delle parole, che sembrano sparate da una specie di mitragliatrice fuori controllo piuttosto che dalla penna di un uomo (in tal senso, piace ricordare la mirabile e disturbante trasposizione filmica operata dal regista Darren Aronofsky su sceneggiatura dello stesso Selby jr). E, come degna controparte fabulistica, una storia di una durezza adamantina, che accompagna i quattro protagonisti in una discesa negli abissi sempre più irrefrenabile, fino allo spicinìo completo dei loro sogni e delle loro illusioni in un terrificante frastuono di sconfitta. Nessun compiacimento estetico (ed estatico, verrebbe da dire) verso le vicende narrate, né quel po’ di cedimento bozzettistico che pure sarebbe lecito aspettarsi in taluni frangenti.
Requiem for a dream è uno dei più grandi libri di denuncia sulla degenerazione dei costumi e delle aspettative "plastificate" della società in cui viviamo solo ed esclusivamente per l’ appassionata purezza e onestà con la quale nulla viene risparmiato al lettore, che infatti, ancora oggi, trova la sua forza e drammaticità inevitabilmente opprimenti. Azzardando un paragone di quelli proprio impegnativi, si potrebbe affermare che in questo scritto rivivano, in una forma assolutamente laica e modernizzata, i capisaldi poetici e ideologici del grande Euripide, quelli che portavano i suoi personaggi a "imparare con sofferenza" la vita dopo aver peccato di "tracotanza" nei suoi confronti. E qui la lezione è di quelle che non si possono scordare mai, mai più.
Dopo molti anni di silenzio, Selby jr pubblica nel 1998 la sua ultima fatica, The Willow Tree ("Il salice"). In coda venenum (ancora!), ci si aspetterebbe. E invece no. La tenera amicizia tra il tredicenne afroamericano Bobby, figlio sfortunato del ghetto della grande città, e il vecchio Werner "Moishe" Shultz, un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio, rappresenta una struggente, indimenticabile parabola sulla difficoltà eppure sulla necessità di arrivare al perdono del prossimo e alla pacificazione interiore. La morte, la violenza e la sete di vendetta che sconvolgono e hanno sconvolto la vita dei due protagonisti sono un’occasione per raccontare al lettore come in fondo al più nero, tortuoso e debilitante dei tunnel si trovi qualcosa di talmente grande – la dignità umana – per la quale bisogna continuare a battersi giorno dopo giorno, infrangendo, una picconata dopo l’altra, i muri dell’odio e della sopraffazione. Pur con tutte le paure del caso, pur contro tutte le pulsioni distruttive che possono albergare in fondo ad ognuno di noi. "A volte abbiamo l’assoluta certezza che vi sia qualcosa dentro di noi che è talmente mostruoso che se dovessimo mai tirarlo fuori non saremmo in grado di guardarlo. Ma è proprio quando abbiamo il coraggio di stare faccia a faccia col demone che è in noi che ci troviamo davanti l’angelo".
Questo è quanto. Questo è il testamento spirituale che sembra volerci lasciare lo scrittore, servendosi di un linguaggio che, pur non tradendo la sua produzione precedente, si sublima pian piano in un lirismo e in una compostezza davvero sorprendenti. Segno che forse, nonostante gli impedimenti oggettivi e le tortuosità di pensiero, alla fine della sua vita (terminata nel 2004) Selby jr ha riconosciuto, in una dolorosa quanto salvifica agnizione, l’infinita grandezza che alligna nel cuore di un uomo vero che non ha smesso mai di battersi. Sì, ci piace immaginare che sia andata proprio così, Hubert.
Domenico Paris

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