lunedì 21 giugno 2010

I coatti sembrano cattivi, ma in fondo sono un sacco belli... (di Gianfranco Franchi)

Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 giugno 2010
Il coatto, tanto per cominciare, è Un sacco bello, come insegna il gran maestro Carlo Verdone, già demiurgo di Enzo, spaccamontagne romanissimo e padre del successivo Ivano, protagonista del viaggio di nozze con Jessica, sempre in cerca di qualcosa di nuovo da fare in una società che ha consumato tutto...
 Il coatto, tanto per gradire, di solito è un gran tifoso della Roma: basta pensare al Principe del vecchio Ultrà (1990) con Claudio Amendola, già buon borgataro nelle prime Vacanze di Natale dei Vanzina (1983). Il coatto, come confermano tutte le sue incarnazioni cinematografiche e televisive, ludiche e romanissime come Ricky Memphis ed Enrico Brignano, ha un approccio qualunquista alla politica, non crede in niente di diverso da quel di cui ha bisogno e non appartiene a nessun circuito. Allora, chi sono i coatti? Andiamo per esclusione: non sono affatto burini, non sono esattamente bori. Le sfumature fanno la differenza e pretendono una corretta analisi delle parole. A Roma si giudica "coatto" quel cittadino, non necessariamente giovane, che tende a rapportarsi con l'alterità mostrando un atteggiamento prepotente, spaccone, arrogante (post-rugantinesco) e una naturale inclinazione alla volgarità; tendenzialmente, è vestito con almeno un elemento sgargiante (dipende dalla stagione) e per lunghi anni è stato caratterizzato dal feticcio dorato della "cavezza" al collo, il catenone con crocefisso o immagine mariana che pure non escludeva un ampio catalogo di bestemmie, e una sincera attitudine all'imprecazione. Il coatto del 2010 ha, talvolta, sostituito la catena d'oro al collo (bella pesante) con qualche tatuaggio (magari tribale; nei soggetti più globalizzati, in lingua inglese) e un orecchino brillante (alla Maradona, o alla Cassano). Lo stile di vita del coatto non è caratterizzato dalla quotidiana pratica della violazione della legge; il coatto tende più a mostrarsi furbo e paraculo, all'italiana, aggirando qualche ostacolo come può, senza tuttavia consegnarsi in toto all'illegalità. È uno che sa - e quando sa, tende a rimarcarlo: la sua sapienza ha un peso specifico - quando è giusto trasgredire e quando è meglio glissare, eclissarsi: in altre parole, imboscarsi. Chiaro che imboscarsi con una capigliatura paglia e fieno tanto di moda a Miami o con una maglietta attillata e tanti tatuaggi non è proprio semplicissimo, ma il coatto sa come fare.
Un buon idolo dei coatti, non a caso, è Ilan Fernandez, ex narcotrafficante colombiano diventato stilista: il suo nuovo marchio, deputamadre69, sta avendo un buon successo internazionale. La sua storia è stata raccontata in un romanzo di Giulio Laurenti, Suerte (Einaudi, 2010), il cui sottotitolo originale la diceva lunga: "Dal taglio della coca al taglio della moda". Estremamente coatto: è un figlio del popolo che ne ha passate tante, ha fatto i suoi sbagli, ha pagato per i suoi sbagli, e adesso ha inventato un marchio fico, radicale e trasgressivo e sta alzando una barca di soldi.
Il coatto ci sa fare e tiene molto agli status symbol. C'è il coatto tecnologico che sta dietro di lusso a tutte le grandi novità della telefonia mobile e del web: magari non sa navigare in Rete in luoghi diversi dai social network più scaciati e populisti, però ha con sé una chiavetta per poter pubblicare le sue ultime foto o le sue ultime novità in qualsiasi momento. Oppure, non ha granché da dire al telefono ai suoi amici, né una gran voglia di parlare con loro mentre si sta lampadando, ma in compenso ha un telefonino in grado di fare filmati (ad alta definizione), scattare foto (altro che le vecchie Polaroid), spedire email (per forza), ha un botto di sfondi coloratissimi e tutta una serie di suonerie, quando da discoteca quando da cinema, utili per comunicare che lui sì che ci capisce di musica. A voja. Non legge niente di diverso dagli articoli del Corriere dello Sport; al cinema va solo per vedere i film pieni di effetti speciali, che poi potrà rivedersi a casa nel suo home cinema da duecento watt, particolarmente apprezzato dai vicini. Non si capisce se abbia sempre fortuna con le donne; diciamo che la difficoltà è trovarne di simili. La coatta, per prima cosa, ciancica. Pensate alla Gerini in Viaggi di nozze. Non mastica: ciancica. Una volta, negli anni Ottanta, faceva pure i palloncini, con le gomme; adesso basta smascellarsi un po' per sentirsi tranquille. No? In secondo luogo, la coatta ha la canottiera un po' più piccola del dovuto, perché cioè se una ha le misure giuste allora non vedo perché non dovrebbe esserne orgogliosa, no? E su quella canottiera ci sono scritte un po' allegre, tipo "Touch Me" o "Non guardarmi". Se vogliamo dirla tutta, la coatta di solito non cammina, strascica. Strascica i passi. Strascica e ogni tanto inciampa; magari sono gli zatteroni, oppure i tacchi improponibili. Eppure giurerei di averle viste strascicare i passi pure con le scarpe da ginnastica (altro must: dipende dai quartieri...). La coatta è mezza manesca ("amo' ma che dici?") e le piace dire "tante cose, signo'", come diceva sua nonna. Che è un modo un po' strano e tutto romanesco per auspicare che il futuro sia sereno, bello e sano. Tante cose.
Cos'ha di diverso il coatto dal burino? In prima battuta, il coatto (l'etimo è latino: dal verbo *cogere, vale a dire "costringere") era originariamente il "costretto": costretto a restarsene in casa per scelta della Madama (ci sarà una ragione per cui il Palazzo di Giustizia si chiama "Palazzaccio", no?) oppure costretto allo sfratto: lo sfratto, appunto, coatto. In un senso o nell'altro, il coatto era un povero cristo a cui le cose ("tante cose signo'") non erano andate bene. Però era romano. Il burino, invece (etimo sempre latino: *buris, vale a dire un pezzo dell'aratro) è semplicemente tutto ciò che esiste e respira extra moenia, al di là delle mura della città: mica solo il contadino che tifa Frosinone, il burino è semplicemente chi non è romano. Il milanese è comunque un burino, il napoletano non ne parliamo, il torinese che te lo dico a ffa'? Naturale che tutto ciò che non sia romanesco, dall'accento al modo di fare, sia burino: ad esempio un tamarro milanese non è un coatto, è un burino e basta.
Cos'ha di diverso il coatto dal boro? Il boro è romano, proprio come il coatto. Ma il boro ha una certa smania di arrampicarsi nella Roma Bene, nei salotti che contano. Il boro, a differenza del coatto, ostenta le cose di lusso magari laddove non c'entrano niente. Il boro è un coatto ripulito, che ha perduto la sua ingenuità e la sua innocenza, diventando una macchina da consumo. Il boro è magari il costruttore furbetto del quartierino, ex piccolissimo borghese coattello con tanta voglia di guadagnare belle lirette, a qualsiasi costo; è diventato un ibrido, mezzo coatto mezzo signore, e a ben guardare non piace più a nessuno.
Il coatto invece è uno ruspante: gran cazzaro ma brioso, basti pensare all'Armando Feroci del Gallo Cedrone di Verdone (1998), uno che pur di piacere e di guadagnare attenzioni tende a strafare, eccede, finisce per parlarsi addosso. Il coatto è uno che gioca: gioca a dare i soprannomi, gioca sulle piccole oscenità, gioca sul cameratismo con gli amici, sulla goliardia. Il film di Placido dedicato ai delinquenti e agli assassini della Banda della Magliana, Romanzo criminale (2005), tratto dal buon romanzo di Giancarlo De Cataldo, è riuscito a colpire nel segno e ad affascinare tanti giovani coatti perché i suoi personaggi sono stati raccontati proprio come un branco di coatti che si divertono, si scambiano battute a effetto, tutte in dialetto, se la rischiano ma alla fine la sfangano, senza problemi, hanno ambizioni sfrenate e un po' fanfaronesche ("e cosa volemo noi?" "Roma"), sono pieni di donne e vivono la notte nei (loro) locali. E così, a ben guardare non sono stati interiorizzati come pessimi esempi, ma come esempi paradossali, cosa ben diversa. Complice, chissà, anche il successivo telefilm: è un'ipotesi. In ogni caso, l'essenza mostruosamente coatta dei personaggi è riuscita in quest'impresa. In un certo senso, è quello che era accaduto per gli adorabili, nei loro vizi, nei loro difetti, nei loro talenti, nella loro ben diversa pulizia, a dirla tutta, e nella loro stupenda ignoranza, Ragazzi di vita (1955) di Pier Paolo Pasolini, tornati più avanti, sotto simili spoglie, nella Vita violenta (1959) dell'artista friulano. Pasolini aveva saputo fare letteratura e dare letteratura a chi non ne aveva mai avuta, rischiando di cadere nel dimenticatoio dopo una vita di incomprensioni e di fastidiose satire borghesi. Pasolini aveva saputo mettersi allo stesso livello di quei ragazzi, aveva saputo imparare la loro lingua e aveva saputo interiorizzare il loro modo di fare, e di vedere la vita. Senza nessun complesso di superiorità. Viene da domandarsi se tutta l'ingenuità, la genuinità e la chiassosa semplicità di queste persone non possa essere ancora oggi il carburante per una piccola ma necessaria trasformazione sociale. Per un ritorno a una socialità fatta di tanto colore, di tanta personalità e di autentica immediatezza, per dire: una delle lamentele più comuni della nostra società è quella della dissoluzione delle antiche, amate abitudini d'una volta, come il ritrovarsi nei bar e nelle piazze, non solo nei locali. Ma nei bar e nelle piazze dei nostri quartieri i coatti, i bori e i burini sono i nostri primi interlocutori. Forse perché, a essere onesti, in ognuno di noi romani del 2010 c'è qualcosa di coatto, qualcosa di boro, qualcosa di burino. Per quello ridemo tanto dei film di Verdone. Semo noi, Carlo Verdone.
Gianfranco Franchi

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