martedì 22 giugno 2010

Intervista a Marco Tarchi (a cura di Fiorenza Licitra sul Fondo magazine)

Intervista a cura di Fiorenza Licitra
Marco Tarchi [nella foto], insigne politologo e animatore della Nuova Destra, alla fine degli anni Settanta, descrive, attraverso il suo ultimo libro La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra (Vallecchi, 370 pp, 18 euro), l’esperienza militante di gente appassionata che, tra il 1977 e il 1980, volle mostrare un profilo giovane e rivoluzionario, rivolto a un orizzonte di apertura e di possibilità nuove eppure autentiche...
 E’ infatti questo che Tarchi racconta nel suo libro: la sfida per la conquista di un nuovo spazio politico, culturale, antropologico e sociale nel proprio tempo, senza i torcicolli nostalgici e i velleitarismi di un’élite che rischia di essere ghetto e nient’altro. A testimoniare cosa e come furono i Campi Hobbit non è solo l’autore, ma anche la voce di quei protagonisti che hanno creduto, hanno osato, hanno voluto una rivoluzione impossibile.
La rivoluzione impossibile fu soprattutto il tentare una rivoluzione antropologica e culturale, che formasse eticamente i militanti?
Non si trattava di modificare un’etica ma, forse meno o forse più ambiziosamente, una mentalità; di spingere ad un diverso rapporto con la modernità, che portasse non più ad opporvisi frontalmente ma a sperimentarne le contraddizioni per suggerirne alcune trasformazioni, e a un diverso modo di confrontarsi con le categorie di sinistra e destra, scomponendone e ricomponendone i contenuti in nuove sintesi.

I Campi Hobbit nacquero dall’esigenza e “dalla volontà di incidere sul proprio tempo”, da protagonisti…

Sfuggendo alle nostalgie e alla tentazione di rinchiudersi in un ghetto rifiutando il confronto con la maggioranza dei coetanei, cercando prima di tutto di capire che immagine si erano fatti di noi e di modificarla, mostrandoci per quello che realmente ritenevamo di essere.

Fu anche un momento in cui avvenne il distinguo da ciò che si era stati e che non si poteva più essere, che, come scrive lei, fu notato per la prima volta anche dall’avversario politico. Questo fu il vero riconoscimento di un’azione di apertura e di confronto, quasi di contaminazione…

Ho usato spesso, in quel periodo, l’espressione “feconda contaminazione”, volendo intendere che non potevamo respingere in blocco il patrimonio di valori, aspirazioni, umori, passioni e persino furori che contraddistingueva chi si batteva sul cosiddetto “altro lato della barricata”. Perché era evidente che su molti temi divergevamo per sfumature interpretative ma non sulla sostanza. A dividerci erano spesso questioni nominalistiche – il richiamo all’antifascismo o all’anticomunismo – dietro le quali, salvo casi sporadici, non c’era affatto l’abisso che qualcuno continuava a dipingere retoricamente.

Montesarchio fu il momento massimo in cui si ritrovò l’autentica dimensione di sentirsi comunità di visione e di giudizi, senza però per questo essere, passivamente o con un certo velleitarismo intellettuale, ghetto.

Fu un’esperienza confusa, come lo sono tutte le occasioni di scoperta, e non priva di velleitarismo. Ma fu il primo momento in cui un migliaio di ragazzi e (poche, a dire il vero) ragazze che supponevano di condividere nientemeno che una visione del mondo poterono conoscersi, guardarsi in faccia e capire cosa li univa e cosa li divideva. Si iniziò lì a parlare di un modo comunitario di intendere i rapporti personali, lontano dall’individualismo e dal collettivismo. Poi, per qualcuno, la comunità divenne quasi un’ossessione, e nella sua versione “militante” creò le premesse di una seconda chiusura nel ghetto. Ma questa è un’altra storia.

Poco dopo l’ultimo raduno avvenne la strage di Bologna con un ribaltamento significativo da parte delle testate giornalistiche di quella che era stata un’interpretazione, visto i tempi, positiva. Quanto pensa abbia contribuito la stampa e la malainformazione all’inasprimento degli anni di piombo?

Molto, perché la frenesia dello scoop, il desiderio di svelare trame disseminate per ogni dove, portò a fare, letteralmente, d’ogni erba un fascio. E alimentò sospetti, odi, intolleranze reciproche. Creò mostri e spauracchi, irresponsabilmente.

Con la Nuova destra la politica si fece metapolitica…

Fu un tentativo di uscire dalle secche del mero attivismo e dalla tentazione di ridurre l’impegno alle prospettive di carriera in ambiti istituzionali. E di coniugare l’azione di proselitismo con lo sforzo critico. Un tentativo, purtroppo, fallito. Come ha scritto di recente Alain de Benoist, si illudeva chi pensava di aiutare la destra a pensare. Quell’ambiente voleva solo conquistare una fetta di potere e gestirlo a beneficio della propria classe dirigente. Le idee erano una zavorra.

E la “destra nuova” di Fini?

Con la Nuova Destra non ha nessun rapporto di continuità o evolutivo. Basta leggere qualcuna delle migliaia di pagine scaturite da quella esperienza per sincerarsene. Chi avversava il modello di sviluppo occidentale, l’egemonia degli Usa, la Nato, la tirannia del mercato, lo statalismo, il nazionalismo patriottardo, il culto del militarismo e dell’ordine ad ogni costo, non ha niente in cui riconoscersi nei dintorni di questa “destra nuova”.
Crede che sia ancora valida la formula del contropotere culturale rispetto al potere politico e alla tirannia dei mass media?
Sì, a patto che ci si renda conto che solo passando attraverso i mezzi di comunicazione di massa si può creare un contropotere culturale.
Può ancora darsi una concezione del mondo più forte di cento ideologie e chi sono i possibili referenti che pensano metapoliticamente?
Le ideologie sono i prodotti delle concezioni del mondo, e mi guardo bene dal demonizzarle, perché guidano l’azione politica, mobilitano le coscienze, attivano le volontà. Ci sono anche quando si finge che siano scomparse. La loro assenza riduce la politica a più o meno redditizia professione. L’azione metapolitica, se è sforzo per far penetrare idee e modelli di comportamento nella mentalità collettiva, si rivolge a tutti coloro che vivono in una società, perché tutti sono immersi in un dato “spirito del tempo”. I tramiti per raggiungere l’immaginario di queste collettività sono molteplici, ma ancor oggi hanno un rilievo particolare le élites intellettuali, gli “uomini di idee”. È in primo luogo a costoro che occorre rivolgersi.
Tutte le rivoluzioni sono destinate a essere tradite?
Se riescono, sono destinate ad essere adattate, per potersi realizzare. E ogni adattamento è un po’ un tradimento. Ma è sempre possibile misurare quanto di esse si è tradotto in pratica. Se invece vengono soffocate sul nascere, il problema del loro tradimento nemmeno si pone.
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