Dal Secolo d'Italia del 1 giugno 2010
Come per Ennio Flaiano parlare di cinema rappresentava il pretesto per parlare d’altro, altrettanto è lo sport per Arpino. Tanto da fare della squadra azzurra battuta uno specchio fedele della società italiana di quegli anni. Non solo la cronaca di una sconfitta, ma un libro che al tempo stesso è romanzo sociale, saggio di costume e fine letteratura. Spietato e senza fare sconti – con l’eccezione per Giacinto Magno (Facchetti), l’unico disposto a sottoporsi a duri allenamenti mentre i colleghi oziano in lussuosi alberghi – ma senza rassegnarsi al pessimismo. Scrive il libro negli anni di avvicinamento al cinquantesimo compleanno, in un periodo in cui appare segnato dalla disillusione e da una certa fatica di vivere, incalzato dalla fretta che caratterizza la “routine” randagia dell’inviato speciale. La speranza, tuttavia, è solo ferita, non morta. Ma non è affidata alle ideologie o alle utopie di massa, semmai agli individui e persino ai calciatori e a ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo. «Siamo gli ultimi romantici, anche se in brache corte», dice il Vecio. Perché gli uomini forse non possono cambiare la storia ma, a volte, possono darle un senso. «Vinci solo se sfidi te stesso», fa dire a Mario (Maffiodo), l’amico fraterno dello scrittore, anch’egli presente in questa singolare galleria allestita da un vero, come si definiva, «bracconiere di personaggi»: dal Vecio, con la sua faccia da cattivo hollywoodiano, agli altri attori di quelle infelici giornate del giugno ’74. Rinominati uno a uno, né veri né inventati, semmai ritratteggiati sul confine tra realtà e finzione. Un affabulatore d’eccellenza: «Un’ora con lui – ebbe a dire Indro Montanelli – era un bagno d’osservazioni, ricordi, aneddoti, confessioni, sembrava che ti avesse spiattellato su un tavolo tutto se stesso». Un patrimonio da riscoprire attraverso i suoi romanzi, magari cominciando proprio da Azzurro Tenebra e auspicando alla nostra, di nazionale, un’estate ben più solare.
L’hanno definito il più bel romanzo sportivo di sempre. Sicuramente il primo, quello che dimostrò in maniera esemplare come il calcio possa prestarsi a una elaborazione letteraria. Azzurro tenebra, il libro cult che Giovanni Arpino scrisse nel lontano ’77, è appena tornato in libreria nell’economica Bur Rizzoli (253 pp. a soli 9,80 €). Un prezzo irrisorio per rileggere il catastrofico mondiale tedesco del ’74 attraverso la lente d’ingrandimento di uno degli scrittori più brillanti del nostro Novecento. La sconfitta con la Polonia per 2 a 1 e la conseguente indecorosa eliminazione al primo turno. La rabbia degli «italiani di cermania», per i quali la vittoria avrebbe potuto rappresentare l’auspicato riscatto per la dura vita di emigrati (come finalmente sarà nel 2006).
Arpinò era lì, inviato speciale de La Stampa, quando i nostri connazionali si raccolsero incazzati sotto la tribuna stampa per insultare quella squadra svogliata di «piagnoni, contesse e nomi aurei». Ricchi e viziati. «Più attori che uomini», fa dire l’autore al “Vecio” – Enzo Bearzot, all’epoca vice di Valcareggi, interlocutore principe della voce narrante – e viene da pensare ai nostri nazionali in partenza per il Sud Africa, sempre più protagonisti nella pubblicità piuttosto che sul campo.
Una sconfitta da rimuovere, quella del ’74, come nella “migliore” tradizione di un popolo che ha la memoria corta. Tanto che quando il romanzo esce, tre anni dopo, l’accoglienza del pubblico è a dir poco tiepida. Il giudizio dei critici, sprezzante. «Per loro – dirà Arpino – parlare di sport è sempre un’operazione squalificante. Solo se scrivi di amanti, cani o masturbazioni hai la sicurezza di essere preso sul serio. E io sono un emarginato perché vivo a Torino e ho il torto di non fare il voyeur ma di riprodurre uno spicchio di realtà che appartiene a tutti». Anche a quei letterati che la domenica impazziscono davanti al video per le partite di calcio. Arpino ne elenca alcuni: Garboli, Ferrata, Volponi, Sereni, Gorlier, Bàrberi Squarotti. «Avessero speso una sola parola buona per il mio libro», ringhia.
Lo scrittore piemontese, al contrario, è tutt’altro che altezzoso. Narratore già affermato, avendo dimostrato le sue qualità letterarie ben prima di inseguire le suggestioni del popolare rettangolo di gioco, non rinunciò a misurarsi con il proprio tempo. Piuttosto che crogiolarsi nella torre d’avorio dei grandi narratori, preferì mescolarsi con «Belle Gioie e Jene», come divideva i giornalisti sportivi: da una parte quelli del «tutto va bene madama la marchesa» e dall’altra coloro che alimentano sospetti. Spirito polemico, ruvido e irriverente, rispose colpo su colpo alle sollecitazioni di una attualità non sempre edificante, facendo della tribuna stampa degli stadi una specie di trincea postmoderna. Scomoda, disprezzata dai renitenti e da chi badava, allora come ora, a non sporcarsi il bel completo da letterato con il fango del linguaggio inevitabilmente banale del giornalismo sportivo: «Il solito paraponzi da prima pagina – lo descrive con feroce autorinia Arpino – fatto da tre battute ironiche per gli intenditori, due capoversi per il tifoso baluba, l’eterno dubbio tecnico cotto nel rosmarino del centrocampo. Servire bollente e gratinato in una colonna e mezza di piombo».Come per Ennio Flaiano parlare di cinema rappresentava il pretesto per parlare d’altro, altrettanto è lo sport per Arpino. Tanto da fare della squadra azzurra battuta uno specchio fedele della società italiana di quegli anni. Non solo la cronaca di una sconfitta, ma un libro che al tempo stesso è romanzo sociale, saggio di costume e fine letteratura. Spietato e senza fare sconti – con l’eccezione per Giacinto Magno (Facchetti), l’unico disposto a sottoporsi a duri allenamenti mentre i colleghi oziano in lussuosi alberghi – ma senza rassegnarsi al pessimismo. Scrive il libro negli anni di avvicinamento al cinquantesimo compleanno, in un periodo in cui appare segnato dalla disillusione e da una certa fatica di vivere, incalzato dalla fretta che caratterizza la “routine” randagia dell’inviato speciale. La speranza, tuttavia, è solo ferita, non morta. Ma non è affidata alle ideologie o alle utopie di massa, semmai agli individui e persino ai calciatori e a ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo. «Siamo gli ultimi romantici, anche se in brache corte», dice il Vecio. Perché gli uomini forse non possono cambiare la storia ma, a volte, possono darle un senso. «Vinci solo se sfidi te stesso», fa dire a Mario (Maffiodo), l’amico fraterno dello scrittore, anch’egli presente in questa singolare galleria allestita da un vero, come si definiva, «bracconiere di personaggi»: dal Vecio, con la sua faccia da cattivo hollywoodiano, agli altri attori di quelle infelici giornate del giugno ’74. Rinominati uno a uno, né veri né inventati, semmai ritratteggiati sul confine tra realtà e finzione. Un affabulatore d’eccellenza: «Un’ora con lui – ebbe a dire Indro Montanelli – era un bagno d’osservazioni, ricordi, aneddoti, confessioni, sembrava che ti avesse spiattellato su un tavolo tutto se stesso». Un patrimonio da riscoprire attraverso i suoi romanzi, magari cominciando proprio da Azzurro Tenebra e auspicando alla nostra, di nazionale, un’estate ben più solare.
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