martedì 6 luglio 2010

Birra e kebab, la pazza festa dei tedeschi (di Pierluigi Mennitti)

Articolo di Pierluigi Mennitti
Dal Secolo d'Italia di martedì 6 luglio 2010
Al triplice fischio finale di Argentina-Germania, mentre Maradona bagnava di lacrime le maglie inutilmente sudate dei suoi giocatori, l'intera città di Berlino è esplosa riversandosi per le strade come fosse una capitale brasiliana o mediterranea. Bandiere, auto, clacson e le vituperate vuvuzelas, ormai arrivate su tutte le bancarelle tedesche, hanno descritto la colonna sonora dell'entusiasmo di una nazione che fino a un decennio fa guardava con sospetto qualsiasi espressione di nazionalismo, perfino nella versione goliardica del football. Ma dove la festa si è trasformata in una Piedigrotta di fine anno, con botti e fuochi d'artificio, è stato nei quartieri di Kreuzberg e Neukölln, i rioni a maggiore densità turca. È lì, complice l'assenza della Nazionale della mezza luna dal Mondiale sudafricano, che l'integrazione per via sportiva sta realizzando quel miracolo che solo il calcio può generare. Migliaia di turchi, giovani e anziani, uomini e donne, issano la bandiera nero-giallo-oro alle finestre, sui chioschi di kebab, davanti alle bancarelle di frutta e verdura, sui tendoni dei mercati che vendono spezie e formaggi arrivati in giornata dalle lontane terre dell'Anatolia. Fosse possibile nominare il talento del Werder Brema, Mesut Özil, ministro per l'integrazione, tutti i problemi sarebbero risolti con la velocità di un dribbling.
Chi l'avrebbe mai immaginato che una squadra tradizionalmente pesante e ostica come la Germania, che per anni si è portata sulle spalle il guerresco appellativo di «panzer» in ricordo delle devastazioni provocate dalle sue armate in due guerre mondiali, diventasse di colpo simpatica e di tendenza? Un modello, non tanto di ordine e disciplina, quanto di creatività e cinismo, creato da un buffo allenatore patito di tattica, con un taglio di capelli che ricorda i figli dei fiori degli anni Sessanta e completi di eleganza classica appena sfornati da qualche stilista di ispirazione scandinava. A sentirlo parlare si capisce subito che si tratta di un tipo fuori dall'ordinario: «Estetica e ordine, queste sono le mie linee guida. La squadra deve essere bella da guardare, deve muoversi come una grande orchestra sinfonica dove i singoli interpretano uno spartito comune muovendosi con ritmo ed eleganza. Senza ordine non c'è creatività, senza creatività non c'è estetica e soprattutto non c'è ritmo, ingrediente essenziale nel calcio moderno». Era dai tempi di Sacchi che non compariva un filosofo dell'estetica in panchina. I suoi ragazzi corrono, si cercano e soprattutto si trovano. Un collettivo che non conosce individualità soverchianti, con l'eccezione forse del talentuoso Özil. La preparazione all'equilibrio è il segreto dell'esteta Löw, tutto deve muoversi alla perfezione, ogni errore può costare caro, ogni azione creata per bene deve portare al gol. Quattro all'Australia, quattro all'Inghilterra, quattro all'Argentina, nessuno in questo Mondiale ha segnato così tanto.
Tornando al discorso che più intriga in questi giorni, quello dell'integrazione fra le tante anime di giocatori provenienti da retroterra culturali e etnici diversi, la pietra filosofale che governa l'ordine tedesco è proprio l'equilibrio. Cercato, studiato, voluto. Nulla è lasciato al caso, e questo è rassicurante e molto tedesco. I turchi Özil e Tasci, il ghanese Boateng, il tunisino Kedira, il brasiliano Cacau, lo spagnolo Gomez e i polacchi Klose, Podolski e Trokowski non sono tanto oriundi pescati nel mare magno del mercato pallonaro globale ma figli di emigranti venuti su nelle squadre giovanili delle squadre tedesche. La sublimazione estetica di Löw è il punto di arrivo di una scelta politica ben precisa fatta dalla federazione tedesca qualche anno fa, quando fu chiaro che il calcio stellare dei diritti televisivi e del merchandising stava portando il sistema dentro una bolla che presto sarebbe scoppiata. Fu allora che dirigenti avveduti decisero di cambiare rotta e di tornare a puntare sui vivai. E siccome la società tedesca è ormai supportata dal quindici percento di popolazione straniera, ecco che nei campetti giovanili sono arrivati anche i figli degli immigrati che ormai si sentono tedeschi. Ecco perché è apparsa come un tuffo in una piscina senz'acqua la proposta di due anonimi dirigenti della Cdu e della Csu di introdurre un test di intelligenza per tutti i nuovi immigrati. Un'azione in chiaro fuorigioco: i due tapini hanno lanciato la proposta il giorno dopo la vittoria della Nazionale contro l'Inghilterra, mentre gli occhi di tutti erano ancora pieni delle magie di Özil e Klose. Inutile dire che sono stati seppelliti da una valanga di critiche, piovute anche dall'interno dei loro partiti: c'è spesso una ragione se uno resta un politico di terza fila.
«Lavorare per una migliore integrazione» è stato d'altronde il biglietto da visita del nuovo presidente Christian Wulff, cristiano-democratico anche lui, che nel governo della sua regione aveva da poco nominato a ministro per gli Affari sociali una battagliera avvocatessa di origini turche con il dichiarato proposito di dimostrare alle comunità straniere che lavorando sodo chiunque può trovare un posto al sole anche in una terra avara di sole come la Germania. La squadra di Löw lavora da tempo su questa traccia: serietà, applicazione, dedizione. Restando aggrappati agli ultimi cliché, si può dire che queste siano virtù tedesche ma, se a seguire le traiettorie impercettibili è un funambolo come Özil, si può anche dire che almeno un pezzo di quell'integrazione faticosamente cercata sia riuscita.
Pierluigi Mennitti
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