lunedì 5 luglio 2010

Con gli ZZ Top dal vivo il disco rincorre la verità del concerto (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 luglio 2010
Va così. Va che vi incontrate a vent'anni e vi mettete a suonare insieme per vedere se funziona - tre ragazzi texani nati tutti nel 1949 - e che il sodalizio è per sempre. L'eccezione che conferma la regola. Il gruppo più longevo di tutti i tempi, esclusi soltanto, per ora, i Four Tops. Loro sono arrivati a 44 anni, dal 1953 al 1997. Poi, purtroppo, il destino ha riaffermato il suo potere assoluto: Lawrence Peyton è morto. Non era più questione di metterci la buona volontà che appiana ogni possibile divergenza e il desiderio di proseguire, continuando a mischiare quattro personalità differenti fino a tirarne fuori un'altra, collettiva, che le trascenda. L'equipaggio aveva perso un uomo. La nave ha ripreso a navigare. Il record, per quello che valeva, si è fermato a quella cifra comunque straordinaria. Cosa volete che importi? Lawrence è morto. Il record è una cosa che si vede (che si nota) soprattutto dall'esterno. Dall'esterno si pensa che sia stato un obiettivo. Per chi lo vive, invece, è solo una specie di coincidenza: stavamo bene. È andata così.
Gli ZZ Top, che suoneranno qui in Italia nei prossimi giorni, il 12 a Roma, il 14 a Piazzola sul Brenta e il 15 a Vigevano, sono un trio. Billy Gibbons alla chitarra, Dusty Hill al basso e Frank Beard alla batteria. Come si dice in termini tecnici, un solista e una sezione ritmica. Il nucleo fondamentale del rock. Basso e batteria che disegnano lo sfondo, riempiendolo di rocce compatte e costellate di appigli. La chitarra elettrica che si arrampica dove e come vuole, veloce come uno spericolato free climber o meditata come un saggio, ma non meno coraggioso, alpinista tradizionale. Il blues come orizzonte imprescindibile che tutto racchiude. Come consapevolezza di ciò che è stato fatto dai maestri e come istinto di ciò che vuoi sentir sgorgare dal tuo strumento e dalla tua voce. L'ammirazione per Muddy Waters. L'ammirazione per B.B. King, che ha ispirato il nome della band. Una sorta di trascrizione in codice, che infatti sono stati loro stessi a dover svelare. Per molto tempo, nella ridda delle ipotesi, una delle versioni più accreditate era che all'origine ci fossero due marche di cartine per sigarette, Zig-Zag e Top. Congettura ingegnosa. Ma falsa. La verità era che B.B., a sua volta un nome fittizio formato dalle iniziali di "Blues Boy", si era trasformato in ZZ, da pronunciarsi zi-zi con una zeta dolce e strascicata all'americana; mentre King, che significa re, aveva ceduto il posto a Top, che designa chi sta in cima. Niente male. Un piccolo segreto che ti tieni per te come un amuleto che non sembra tale. Come un soprannome che non corrisponde ad alcun vocabolo esistente ma di cui tu conosci il significato. E ti piace. E te lo porti appresso nel bene e nel male. Quando va bene ti inorgoglisce. Quando va male ti consola.
Agli ZZ Top, del resto, i travestimenti piacciono molto. Mica quella roba "assurda" alla Kiss. O in perenne mutazione alla Madonna. Un unico, robusto, definitivo intervento sul proprio aspetto iniziale, che in fin dei conti è quasi sempre troppo casuale per essere assunto a parametro di verità, per adattarlo a ciò che si preferisce. Tolto Frank Beard, che si accontenta di sistemarsi fra i suoi tamburi (un po' trono e un po' bunker) e non si pone alcun problema di immagine, gli altri due si presentano da anni con lo stesso look: cappello in testa, occhiali da sole e soprattutto - esse sì irrinunciabili - due barbe fluentissime che arrivano al petto. Quando la Gillette mise sul tappeto un milione di dollari per ciascuno affinché se le tagliassero, declinarono entrambi l'offerta con un pudico, o sarcastico, «siamo troppo brutti per mostrarci al naturale». Più probabilmente, assai più probabilmente, le ragioni erano tutt'altre: uno, si piacevano così; due, la loro fama di rudi texani che fanno di testa propria ne sarebbe uscita incrinata e i fan non lo avrebbero apprezzato; tre, i soldi non gli servivano affatto.
Storia vecchia, a ogni modo. La proposta (il tentativo di corruzione...) risale al 1984. Gli ZZ Top erano reduci dall'exploit di Eliminator, che aveva venduto moltissimo e che conteneva quelle che sarebbero diventate alcune delle loro composizioni più celebri, a cominciare da Gimme All Your Lovin'. Era automatico che i pubblicitari li prendessero in considerazione come possibili testimonial. Sembrava il classico rendez-vous tra artisti di successo e prodotti di consumo. Una conferma della popolarità raggiunta. Quasi una consacrazione nell'Olimpo - o nella sua imitazione in stile Las Vegas - delle celebrità americane. Che tu sia un artista è secondario. L'importante è che tu sia famoso. La fama significa soldi. La pubblicità anche. Dov'è la differenza? Dove cazzo sta, il problema?
La consacrazione autentica, o se non altro meno posticcia, è arrivata vent'anni dopo. Il 15 marzo 2004 gli ZZ Top sono stati inseriti nella Rock and Roll Hall of Fame. E il discorso di benvenuto, che è parte integrante della cerimonia e che va sotto il nome di "induction", è stato affidato a Keith Richards. A inizio carriera, nel 1973, loro avevano aperto alcuni concerti degli Stones alle Hawaii. Tre decenni più tardi le distanze di allora erano solo un ricordo: non più principianti da un lato e star acclamate dall'altro. Finalmente, giustamente, musicisti di valore accomunati dalla lunghezza del percorso e dalla soddisfazione di aver mantenuto una propria integrità. Col business hanno flirtato solo di tanto in tanto. Niente matrimonio, ovviamente d'interesse.
Ad avvicinarli, inoltre, c'è la preferenza per i concerti rispetto ai dischi. I dischi si incidono perché non si può fare diversamente. La vita vera di un musicista scorre sul palco. Come ha sottolineato recentemente Dusty Hill, «se una band è davvero grande lo vedi e lo senti dal vivo. Non tutte le band di successo suonano bene come sembrerebbe ascoltando i loro dischi». Gli ZZ Top non corrono il benché minimo rischio di sfigurare nel confronto. Semmai il contrario: sono i dischi a essere costretti a rincorrere il feeling dei concerti. Dovendo rinunciare, per forza di cose, a quella loro presenza scenica che trasuda convinzione e affiatamento, stima reciproca e piacere di essere ancora insieme. Quarant'anni dal primo incontro. Che volete che sia?
Federico Zamboni
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