domenica 11 luglio 2010

Crosby, Stills & Nash, un'ipotesi latente riesce a farsi musica (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 11 luglio 2010
La loro sigla, CSN, è celeberrima da quarant’anni. Primo album nel 1969: senza nessun altro titolo, guarda caso, se non i loro stessi cognomi. Crosby, Stills & Nash. Il californiano David Crosby, allontanato anzitempo dai Byrds. Il texano Stephen Stills, reduce dai Buffalo Springfield. L’inglese Graham Nash, stanco degli Hollies. La foto di copertina ce li mostra accomodati su un divano, piazzato all’aperto sotto la finestra di una linda casetta di legno, dipinta di bianco. A destra c’è Crosby. Al centro c’è Stills, con la chitarra acustica imbracciata e le dita a disegnare chissà quale accordo. A sinistra c’è Nash, seduto sullo schienale come uno che se ne frega, ma con le mani intrecciate e un atteggiamento così composto da sembrare quasi imbarazzato. Tutti e tre in jeans. Figure tipiche di quel tempo. Giovani sognatori, per chi li capisce. Poveri illusi, per chi li disprezza...
In teoria non avrebbe dovuto funzionare. I loro caratteri erano diversi, fino al conflitto. I percorsi artistici eterogenei e, sulla carta, tutt’altro che convergenti. Eppure, contro ogni previsione, il risultato si rivelò affascinante. Meglio ancora: promettente. Si erano incontrati a casa di qualcuno (Joni Mitchell, sostengono Crosby e Nash; Cass Elliot dei Mama’s & Papa’s, replica Stills) e si erano messi a cantare un paio di pezzi. Doveva essere il passatempo di un giorno. Diventò il prologo di un’unione che in qualche modo continua ancora. Non proprio una band nel vero senso del termine, con un percorso che inizia, che porta dove deve portare e che alla fine trova il suo epilogo. Piuttosto un’ipotesi latente, che ogni tanto si concretizza. Una possibilità che non si è mai dissolta del tutto, ma che può sopravvivere soltanto se non si pretende di trasformarla in una certezza permanente. Il loro ultimo album risale al 1999. Adesso sono di nuovo in tour. Stati Uniti ed Europa. Col consueto passaggio in Italia: 16 luglio a Milano, 18 a Lucca, 19 a Roma, 21 ad Aosta.
CSN. A volte il sodalizio si allarga e il trio diventa un quartetto. Ricompare Neil Young, che fu con loro già a partire dal secondo album, il trionfale Dejà vu. E che rimase quanto bastava per fare parecchi concerti, Woodstock incluso, e per essere tra i protagonisti di un doppio live del calibro di Four Way Street. Allora, ed è un bene, la sigla si allarga. Si espande (si completa) con l’aggiunta di una Y. CSNY. Crosby, Stills, Nash & Young. È quando lo scrivi in forma estesa, che hai l’indizio decisivo. Un dettaglio che passa inosservato. Una minuzia che si rivela illuminante. Mettetelo a fuoco, quel banalissimo “&”. Perché è proprio quel simbolo sinuoso, quell’intreccio di curve che è allo stesso tempo chiuso e aperto, a connotarli nel modo migliore. Lo sanno tutti: & sta per “and”. Ma detto così non rende. La traduzione vera non è quella letterale. È quella concettuale. & sta per “insieme”. &, che richiama la chiave di violino e che campeggerebbe a meraviglia sui loro spartiti, dà la spiegazione (l’intonazione) di tutta la loro storia. Le fasi a due. A tre. A quattro. Non sono mai delle aggregazioni omogenee e definitivamente risolte. Sono sempre le alleanze transitorie di singoli individui che si incontrano per un appuntamento specifico. Per un intento specifico. Crosby & Nash. Crosby, Stills & Nash. Crosby, Stills, Nash & Young. Può andare bene e può andare male. Resterà comunque un progetto a termine. Una singola spedizione per vedere cosa si trova. Per tentare il grande exploit. Ma dopo, che ci si sia riusciti oppure no, tanti saluti e arrivederci alla prossima. Ammesso che ci sia.
L’instabilità che paradossalmente si rovescia nel suo opposto. Anche agli occhi dei fan. Nessuna promessa, nessuna delusione. Nessun obbligo di comporre nuovi brani e di sfornare nuovi album, sia pure a distanza di anni tra l’uno e l’altro. Il vecchio repertorio che non risulta mai così vecchio da diventare incongruo. Il vecchio repertorio che si carica di significati e di suggestioni (gocce di nostalgia, ondate di entusiasmo) proprio perché è vecchio. I ragazzi sono diventati anziani. Crosby è a un passo dai settanta. Gli altri lo seguono abbastanza da vicino. Sono segnati, come è inevitabile che sia. Tutta quella droga. Tutta quella libertà. Le traversie personali. Le conseguenze degli sbagli commessi. I colpi di sfortuna, o di fortuna, che nessuna logica può spiegare, a parte quella del karma. Quarant’anni dopo – e in un mondo completamente diverso, che se la ride di qualsiasi idealismo e che, come scrisse già Oscar Wilde a proposito dei cinici, «sa il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna» – loro sono all’incirca gli stessi, per quanto una persona possa restare se stessa dopo così tanto tempo.
«Ci sono alcune canzoni – dice David Crosby – che sembrano ancora spingere la gente in un viaggio emozionale. Che sembrano ancora rilevanti. Ma l’età della gente [ai concerti] è molto ampia. Alcuni hanno cominciato a sentire le nostre canzoni quando avevano diciassette anni, ma c’è anche chi ne ha venti adesso. Vengono molti adolescenti. Ora facciamo anche brani di altri, perché stiamo lavorando a un disco di cover.» Dice Graham Nash: «Puoi cambiare il mondo in tanti modi. Puoi cambiare il mondo incoraggiando i bambini a leggere, avendo cura della tua famiglia e dei tuoi amici. Puoi cambiare il mondo in un milione di modi. Credo nel profondo del mio cuore che il gesto più piccolo possa cambiare il mondo». Dice Stephen Stills: «L’apatia è il peggior nemico».
L’armonia è la cura. Al posto di un canto solitario – così solitario che senza neppure accorgersene si spezza in urla o in lamenti – l’amalgama di più voci che si ascoltano l’un l’altra. Che si rispettano l’un l’altra. Le canzoni, e più in generale la musica, come esempio di un modo diverso di incontrarsi tra esseri umani. Di coesistere nello stesso spazio. Nella stessa azione. Quando David Crosby parla di cover sta dicendo esattamente questo, al di là del fatto che ne sia consapevole oppure no. Sta dicendo che ci si può esprimere appieno anche all’interno di un contesto che è stato predisposto da qualcun altro. In fondo, fin dal primo momento, CSN (& Y) hanno scritto pochissimo a più mani. Ma lo hanno riscritto, e reso memorabile, nel suonarlo e nel cantarlo insieme.
Federico Zamboni
Nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
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