Articolo di Giuliano Compagno
Dal Secolo d'Italia di sabato 25 settembre 2010
Quel che desiderava provare concretamente, Michele lo sapeva. La coincidenza dei sentimenti con la realtà della vita a un certo punto presenta il suo conto, e se nulla aderisce come avrebbe dovuto, l'indifferenza rimane l'ultimo, disperante rifugio. «Senza fede, senza amore, solo, per salvarsi bisognava, o vivere con sincerità e secondo gli schemi tradizionali questa sua intollerabile situazione, o uscirne per sempre…». Scritte da un giovanissimo talento, che una malattia aveva costretto a letto per lungo tempo - e a fargli compagnia Shakespeare e Molière, Mallarmé e Dostoevskij - le pagine de Gli indifferenti suscitarono, nella solare Italia indottrinata del 1929, un certo turbamento, quasi uno stupore.
Alberto Pincherle - era nato nel 1907 - s'era pubblicato quel romanzo a sue spese e quelle cinquemila lire non le avrebbe mai rimpiante. Con esse infatti si era pagato l'imperituro titolo di primo romanziere nazionale (una fama che lo accompagnerà sino alla sua scomparsa, vent'anni fa, il 26 settembre 1990).
Lo divenne, senza alcun dubbio, attirandosi fastidi e piaggerie di un certo mondo, ma anche stima e affetto sinceri di un ambiente che a lui sarebbe rimasto sempre vicino, perdonandogli quelle piccole vanità, quei minimi fragili inciampi che pure, avrebbe detto Flaiano, «fanno volume». Da quegli anni Trenta il suo cognome d'arte l'avrebbe preso dalla nonna paterna e la firma di Alberto Moravia sarebbe apparsa in calce alla nostra narrativa novecentesca. Le sue ascendenze, del resto, sembravano il mosaico perfetto della storia di un intero secolo, tanto che il solo ricordarle vale a spiegare una ragionevole parte della sua fortuna, l'altra essendo dovuta al suo talento, alla sua bravura. Uno zio paterno giurista e senatore del Regno: Gabriele Pincherle; una zia paterna che soprattutto fu mamma di Nello e Carlo Rosselli: Amelia Pincherle; una nipote di secondo grado che soprattutto andò sposa a Enrico Fermi: Laura Capon; uno zio materno sottosegretario mussoliniano, deputato e poi nel dopoguerra segretario missino: Augusto De Marsanich. L'Italia intera, insomma, albergava in una sola famiglia, il cui lascito di conflitti e di contraddizioni sarebbe stato ereditato per intero da uno scrittore capace di non sperperarlo. Da un letterato abilissimo a passarvi indenne, con le sue idee, certo, e la visione precisa di un paese complesso, nel quale nulla e nessuno avrebbero mai prevalso del tutto. Fu lo sguardo da altrove a vaccinare Alberto Moravia dalla più tipica delle malattie italiane, dalla fazione e dall'adesione cieche, sebbene non gli mancassero né il senso appartenenza al partito né l'impegno alla causa. Ma seppe vedere un po' più in là delle veline di sezione e il Sessantotto non lo colse sprovveduto. Lui ci provò, a fungere da ambasciatore, ma i "cinesi" non vollero neanche riceverlo. A Jean-Paul Sartre il gioco era riuscito, a lui no.
Ciò finì per addolorarlo, perché in fondo Moravia era stato il più nostro più raffinato interlocutore letterario della Francia. Era cioè transitato con grande perizia dalla temperie surrealista ai tormenti dell'esistenzialismo, tanto da esser indicato come l'imprevisto annunciatore di quel generale inclinarsi del carattere moderno in cui noia e nausea avrebbero dominato lo spirito del tempo. «Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l'altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com'era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani». Molti anni dopo l'eco da Roma si era percepita nitidamente: «In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiatosi della noia, creò la terra, il cielo, l'acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta del paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall'Eden». In quel suo lungo tragitto interiore, da Gli indifferenti a La noia, Alberto Moravia aveva terminato una sorta di traduzione esistenziale, insufflando con immensa maestria, nell'asfittico orizzonte di quel mondo immobile, il respiro più ampio del sogno, dell'erotismo e dell'inconscio, materie impalpabili ma assai più concrete nella sua vita di uomo. Perché pochi al suo livello sarebbero riusciti a declinare in una forma sola e in una scrittura comunque autentica quel passaggio decisivo del '900 a cavallo della Seconda guerra mondiale, allorché le consegne dell'immaginario d'Europa sarebbero passate dai voli e dai proclami aquilini delle avanguardie bretoniane agli appelli e ai cortei degli engagés, talvolta a difesa di cose e di persone poi rivelatesi indifendibili. Come potessero albergare entrambi i sentimenti, nell'animo di Moravia, rimane un enigma letterario di raro interesse, eppure era il medesimo autore a scrivere che «… c'è nei sogni, specialmente in quelli generosi, una qualità impulsiva e compromettente che spesso travolge anche coloro che vorrebbero mantenerli confinati nel limbo innocuo della più inerte fantasia» e che allo stesso tempo la noia ha origine «…dall'assurdità di una realtà insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza». L'impressione è che di Alberto Moravia ve ne fossero due ma che quella sua ambiguità non avesse origine dall'ambizione di compiacere lettori e critici tanto inconciliabili. Era, il suo, uno snobismo naturale, attorno al quale si andò formando una élite alto-borghese che sapeva riconoscere e accettare le individualità e le differenze, una élite che continuamente inaugurava luoghi di dialogo e di confronto (quei salotti tanto spregiati erano poi i caffè di una Roma a tre velocità: la moraviana, la flaianea e la felliniana).
A fungere da quarto incomodo fu a lungo Carlo Emilio Gadda il quale, in occasione di una polemica legata allo Strega 1952, aveva inviato a Gianfranco Contini una terribile lettera, piena di insulti ancor oggi irriferibili all'indirizzo del "rivale". Era accaduto che una raccolta di racconti di Moravia (alcuni di essi già editi) era stata consegnata fuori tempo massimo alla giuria, la quale si convinse ad accettarla in coincidenza con la messa all'indice da parte del Sant'Uffizio della sua opera omnia. La vittoria del romanziere assunse proporzioni schiaccianti e fu ovviamente dovuta a un giusto zelo anti-censorio. Ma Gadda se la legò al dito. E comunque oggi, all'appello di una società letteraria che si rispetti, mancano sia Gadda che Moravia, e dell'ultimo possiamo dire che vent'anni senza di lui sono trascorsi invano. Non tanto per un bisogno di emulatori e di epigoni, quanto per il tacersi di un infinito racconto che in qualche modo è coinciso con la sua morte. Moravia deve senz'altro a se stesso almeno tre virtù: quella del metodo contro l'ispirazione; quella della tenuta contro l'eccellenza, quella della neutralità contro la parzialità. Il fatto di scrivere ogni giorno con rigore e applicazione gli consentì di pubblicare moltissimi romanzi che, in fondo, potrebbero esser riletti come un unico libro. Ma a questo va aggiunto - e vale la pena di rifletterci su - che alla sua opera hanno attinto i più diversi maestri del cinema, da De Sica a Godard, da Bolognini a Damiani, da Blasetti a Brass, il che sottolinea l'universalità di una scrittura e di una narrazione che forse non hanno avuto eguali nella storia della nostra letteratura contemporanea. A lui, nel ricordarlo, dobbiamo altrettante qualità: l'immagine di mondo infinitamente più vasto del proprio giardino e delle sue ossessioni; un'idea della complessità dei rapporti affettivi e sentimentali contro ogni pretesa linearità delle relazioni umane; la visione di una donna liberata, emancipata, da rispettare e da amare, da scrivere e da leggere. Fino all'ultima pagina.
Giuliano Compagno
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