Il 7 ottobre del 1849 moriva il maestro del brivido
Articolo di Silvio Botto
da Linea Quotidiano del 7 ottobre 2010
«Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte», recita un famoso aforisma di Edgar Allan Poe. Un uomo che di sogni, anzi di incubi, se ne intendeva eccome. Morì appena quarantenne il 7 ottobre del 1849, ma nella sua breve carriera di giornalista e scrittore lasciò un segno indelebile nella letteratura non solo anglosassone, ma mondiale. E la sua sconfinata produzione è ancor oggi considerata il punto di partenza per chiunque si sia poi cimentato nei generi narrativi da lui inventati o in qualche modo “anticipati”: il racconto poliziesco, il giallo psicologico e il romanzo gotico e persino la fantascienza.
«Nessuno scrittore del terrore – spiega l'autore e critico Francesco Lamendola - né americano, né europeo, ha potuto evitare di fare i conti con lui, di prendere posizione rispetto alla sua figura gigantesca». Infatti non è un caso che nel corso del Novecento le opere di Edgar Allan Poe siano state letteralmente saccheggiate da altri scrittori, da autori cinematografici (la prima trasposizione sul grande schermo, La caduta della casa Usher, è del 1928, ma ne seguiranno molte altre), da musicisti (Lou Reed, Iron Maiden e Alan Parsons Project), da soggettisti di fumetti e persino dai creatori della serie I Simpson, che hanno dedicato un miniepisodio televisivo al racconto “Il corvo”.
Come detto, la morte lo colse a quarant'anni la domenica del 7 ottobre in un ospedale di Baltimora, dove era stato ricoverato quattro giorni prima in preda a uno stato di delirio su cui non è mai stata fatta piena luce. C'è chi dice che sia stato aggredito per strada, ma di sicuro ad accelerarne il decesso contribuirono le pessime condizioni di salute dello scrittore, che già da tempo soffriva di alcolismo. Dopo la scomparsa della giovane moglie Virginia, morta tre anni prima di tubercolosi, la disperazione di Poe era apertamente sfociata nella bottiglia, alla quale si era attaccato come un naufrago alla scialuppa. Del resto fin da ragazzo lo scrittore bostoniano manifestò una salute cagionevole e un sistema nervoso poco equilibrato. «Nella mia infanzia mostrai di avere ereditato questi caratteri di famiglia; discendo da una razza che si è sempre distinta per immaginazione e temperamento facilmente eccitabile…», scrisse di sé.
Nell'accrescere questa tendenza alla fantasia e all'emozione ebbe un ruolo fondamentale l'infanzia triste e dolorosa del giovane Edgar, che in tenerissima età perse entrambi i genitori e venne di fatto adottato da John Allan, un ricco mercante di Richmond. Nel 1815 il piccolo orfano si trasferì con gli Allan in Inghilterra dove frequentò le scuole fino al 1820. Anche l'adolescenza non fu particolarmente felice: Edgar prima si invaghì della madre di un compagno di studi, che morì prematuramente, poi compose rime per giovani donne delle quali si era innamorato, a quanto pare, non ricambiato. Conobbe giorni felici solo con una certa Sarah Royster, ma il loro matrimonio fu ostacolato dal padre della fanciulla per vecchi rancori con il signor Allan, padre adottivo di Poe. Edgar litigò con quest'ultimo e venne diseredato, tentò senza successo la carriera militare all'accademia di West Point e infine si dedicò al giornalismo e alla scrittura. Nel 1836 sposò la cugina Virginia Clemm, all'epoca tredicenne.
Per Edgar Allan Poe sono gli anni migliori. Ottiene buoni risultati nella sua carriera di giornalista e soprattutto comincia a pubblicare con un certo successo i romanzi e racconti che lo renderanno universalmente famoso. Fra il 1837 e 1838 scrive la “Storia di Arthur Gordon Pym”, un romanzo che secondo il critico Gianfranco De Turris prosegue e riprende un’antica tradizione narrativa (con riferimento ad autori come Coleridge, Swift, Cooper), nella quale sono presenti immagini che si ripetono varie volte: il viaggio per mare, la caduta nell’abisso, le tempeste ed i naufragi che colpiscono i protagonisti, la fame e la pratica del cannibalismo, l’esplorazione di terre sconosciute e il contatto con nuove genti indigene. Tutte queste immagini devono essere considerate anche come elementi di un duro itinerario iniziatico del protagonista che, attraversando l’esperienza del dolore, della morte e della resurrezione, assurge nel finale ad una più sublime e superiore dimensione dell’Essere.
Non un semplice romanzo d'avventura, quindi. Così come non sono banali racconti gotici (di horror, si direbbe oggi) quelli che gli daranno fama soprattutto in Europa. «L’inquietudine che caratterizza il mondo di Poe – sostiene ancora Lamendola - esprime il dramma del passaggio dalla società pre-moderna alla piena modernità, caratterizzata dall’eclisse del sacro, dalla mercificazione totale dei rapporti umani, dall’efficientismo e dal produttivismo esasperati, dalla perdita del senso del limite e del mistero». L'uomo ottocentesco di Poe, in questo tipicamente americano, affianca al mondo reale - tecnologico, dinamico e dominato dal progresso capitalista - un universo parallelo popolato di funebri ossessioni: «l’attrazione morbosa per la decadenza e la morte; la sepoltura da vivi e il ritorno dei non-morti; i torturanti sensi di colpa; la vendetta a lungo covata e ferocemente messa in opera; in una parola, il cupio dissolvi, il desiderio di auto-distruzione venato di sado-masochismo e di necrofilia».
«Mi hanno chiamato folle – scrive Edgar Allan Poe alludendo a se stesso - ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale». In uno scenario così segnato dall'inquietudine e dalla disperazione, potrebbe stupire quella che in realtà è l'altra faccia di Poe, cioè la predisposizione alla logica e al ragionamento matematico e persino una certa tendenza alla comicità e alla narrativa satirica. La passione per le sciarade, i rompicapi e l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne “I delitti della rue Morgue”, “Lo scarabeo d'oro” e “La lettera rubata”. La sua vena satirica, unita a una feroce critica di certa letteratura popolare del suo tempo, si esprime invece in racconti come “L'angelo del bizzarro”, “L'uomo d'affari”, “Come si scrive un articolo alla Blackwood”.
Ma la scomparsa prematura della moglie lo getta nello sconforto e cancella per sempre l'aspetto più lieve della sua complessa personalità, accentuandone invece i lati più cupi e lugubri. Come ha scritto il suo biografo Philip Lindsay, «Tormentato nell’anima, cercò non la pace ma l’infelicità, creando a se stesso situazioni disperate, solitudine e desolazione».
Silvio Botto
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