Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 8 ottobre 2010
Stavolta arriva addirittura da Stoccolma la smentita alla ormai insopportabile litania sulla persistenza di un'egemonia culturale di sinistra che continuerebbe, nonostante tutto, a esercitare un dominio incontrastato sul piano planetario. Il premio Nobel per la letteratura 2010 è stato infatti assegnato a Mario Vargas Llosa, il grande romanziere peruviano che sin dagli anni Sessanta, a partire da una polemica pubblica con la moda del castrismo allora in voga, si collocò decisamente dall'altra parte rispetto alla vulgata progressista. E che, contemporaneamente alla sua produzione narrativa, si è impegnato in un'attività pubblicistica favorevole a una nuova cultura liberale e, nel 1990, scese addirittura in campo in prima persona presentandosi alle elezioni presidenziali del suo paese contro Alberto Fujimori.
È stato anche giornalista e commentatore per la stampa internazionale e il fatto che molti suoi articoli scritti per El Pais siano stati tradotti per anni da la Repubblica deve aver spinto a equivocare molti lettori superficiali qui da noi, gli stessi che magari collegano alla sinistra anche firme come quelle di Pietro Citati o Geminello Alvi che pure sono state o sono ospitate dal quotidiano fondato da Scalfari. Ma anche questo è un sintomo dell'ignoranza che caratterizza certi ambienti...
Fatto sta che il primo a sorprendersi ieri è stato lo stesso Vargas Llosa. «Ancora non ci credo, ho pensato che fosse uno scherzo», ha confessato ai giornalisti dopo aver ricevuto la telefonata ufficiale dell'Accademia di Svezia a New York, dove si stava preparando per una lezione all'università di Princeton. E la sua immediata reazione non è stata da meno: «Ora vado a farmi una passeggiata al Central Park...». Con questo Nobel per la letteratura 2010 del resto sono andate completamente smentite tutte le previsioni della vigilia. In particolare, quelle dei bookie, gli scommettitori di professione, a cominciare dalla più prestiosa società, la Landbrokes di Londra. I pronostici indicavano infatti come grandi favoriti il keniota Ngugi wa Thiong'o e gli statunitensi Cormac McCarthy e Philip Roth. E invece, come è stato due anni fa con il caso analogo, di Jean-Marie Gustave Le Clézio, anche quella giuria svedese che secondo alcuni sarebbe l'ultimo ridotto della nomenklatura letteraria "rossa", una sorta di salotto radical chic espressione del mondo ideologizzato che fu, ha scelto senza pregiudizio premiando la qualità letteraria. Interessante, oltretutto, l'annotazione che il premio è stato assegnato a Vargas Llosa espressamente per la sua «cartografia delle strutture del potere» come recita la motivazione della prestigiosa Accademia.
Primo peruviano a vincere il Nobel, lo scrittore latino-americano ha infatti sempre creduto nella letteratura come "impegno civile" e visto nei demoni della scrittura una forza capace di trasformare la visione della realtà. Sostenitore deciso del principio della libertà politica, ha criticato tutte le forme del populismo caudillista sudamericano e ha spinto a prendere le distanze da qualsiasi «deriva autoritaria che ha l'appoggio popolare». Spiegando esplicitamente, e con uno sguardo rivolto alle derive antipolitiche nella nostra Europa e forse anche in Italia: «Un mondo fatto di persone superspecializzate ma al tempo stesso incolte è un mondo che può più facilmente essere sottomesso e cadere vittima dell'autoritarismo...». E recita uno dei suoi più famosi aforismi di stampo libertario: «In questa società ci sono certe regole, certi pregiudizi e tutto quello che non vi si adatta sembra anormale, un delitto o una malattia». Protagonista della rinascita della letteratura sudamericana insieme al romanziere colombiano Gabriel Garcia Marquez, vincitore del Nobel nel 1982, Vargas Llosa, 74 anni, si fece conoscere per il grande successo nel 1963 con La città e i cani, considerato il suo miglior romanzo. Il libro - pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1967 e ambientato nell'accademia militare di Lima, frequentata dallo scrittore - venne però bruciato in Perù perchè considerato dissacrante. Erano gli anni in cui la Feltrinelli - attraverso l'editor Valerio Riva - stava introducendo da noi i sapori esotici e magici di una certa letteratura sudamericana. Il clima in cui si faceva appunto tradurre Garcìa Marquez: «Lo incontrai - ricordò Riva - mentre stava scrivendo un libro che non si sapeva bene cosa fosse. Era Cent'anni di solitudine, che nei primi mesi del '68 arrivò anche in Italia». E che divenne uno dei libri cult della generazione sessantottina. «Ma era un libro - ha confessato anni dopo Riva - di destra, altro che di sinistra! Quel genere fantasy, l'impianto mitico-nostalgico, quel rivolgersi al passato...».
Comunque, l'esordio di Vargas Llosa - che nel 1993 ha preso la nazionalità spagnola e vive da anni a Londra - risale però alla fine degli anni '50 col libro di racconti I capi. Originario di Arequipa, in Perù, dove è nato nel '36, ha sempre vissuto tra l'America Latina e l'Europa: a Parigi - dove ha frequentato Sartre sul quale è tornato nel saggio Tra Sartre e Camus pubblicato da Scheiwiller - e adesso a Londra. Nel 1976 ci fu la rottura - una vera e propria scazzottata - con l'amico e sodale colombiano Garcìa Marquez: un pugno sferrato per gelosia. Solo tre anni fa il riavvicinamento tra i due scrittori, segnato simbolicamente dalla pubblicazione di un'edizione di Cent'anni di solitudine di Marquez con la prefazione di Vargas Llosa. A maggio 2011 uscirà invece in Italia per Einaudi il nuovo romanzo del premio Nobel 2010: Il sogno del celta, ispirato alla figura del diplomatico britannico e indipendentista irlandese Roger Casement, grande amico di Joseph Conrad.
Luciano Lanna
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