Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 17 ottobre 2010
Nessuna singola recensione potrà mai rendere giustizia a Neil Young. A meno che, nel dare conto dell'ultima tappa, non si richiami anche tutto il suo lunghissimo percorso, cominciato nella seconda metà degli Anni Sessanta e proseguito fino a oggi. Indubbiamente tra alti e bassi, se si guarda ai diversi episodi considerandoli a uno a uno, ma sempre e comunque all'insegna di una ricerca incessante e di un'integrità quasi unica. Il messaggio, una volta tanto, è che non è possibile estrapolare. Prendere un frammento qua e uno e là. Assaggiare (degustare) solo qualche pagina scelta, come si compiacciono di fare le antologie - e i Greatest Hits.
Neil Young non traccia delle strade. Lascia delle tracce. Non c'è una meta precisa. Ci sono delle impronte, e dei segni disseminati tutto intorno, che testimoniano il suo passaggio in certi luoghi e su certi terreni. Se non si è del buoni osservatori - e se, soprattutto, non si ha la voglia e la pazienza di seguirlo - è probabile che dopo un po' ci si stanchi, di quegli andirivieni così poco lineari. Perché mai sta tornando indietro, fino alle distese pianeggianti di Harvest? Perché sta girando in tondo sulle rocce tormentate di Tonight's The Night e di Zuma? Sembra che abbia perso qualcosa. Sembra che abbia trovato qualcosa. Ci sfida a indovinare. Ma a un patto: vietato avvicinarsi troppo. Vietatissimo fare domande.
Le Noise, quest'ultimo album che arriva a poco più di un anno dal precedente Fork In the Road e che si fregia di un titolo che è un gioco di parole tra il nome del produttore, Daniel Lanois, e "noise", rumore, è ancora più ombroso ed enigmatico del solito. Affascinante, se ci si libera di qualsiasi aspettativa. Disturbante, se si pretende di paragonarlo a quello che si ha in mente. Le premesse sono scarne. E, a giudicarle in astratto, sembrerebbero portare nella direzione di una semplicità vecchio stampo. Nulla di più sbagliato. La dotazione di partenza è volutamente limitata, ma solo per costringersi a un lavoro differente e più impegnativo. Chitarre, basso, voce, nient'altro. L'equivalente sonoro di un disegno in bianco e nero. E in bianco e nero, infatti, sono le immagini dei video che sono stati realizzati e che confluiscono in un intero film. Alta definizione, ma niente colori. Così come il disco è ad altissima tecnologia, nel senso di uno sforzo teso a generare, e ad afferrare, sonorità anomale. Che si collocano, analogamente al titolo, in una zona intermedia tra ciò che è definito e ciò che non lo è. Tra ciò che per noi ha senso, il suono, e ciò che non ne ha, il rumore. Bisognerebbe non dimenticarselo mai. Le note, in fondo, identificano solo un codice tra i tanti che si potrebbero elaborare. L'abitudine ci fa pensare che siano le uniche tessere possibili per quel mosaico - per quel caleidoscopio - che chiamiamo musica. L'abitudine è l'involucro rassicurante di un mucchio di inganni.
«Neil - spiega Lanois, che ha un lungo e prestigioso curriculum in cui tutti si ricordano gli U2, ma nel quale, invece, bisognerebbe mettere al primo posto Brian Eno - ha davvero apprezzato i suoni che gli ho proposto. È entrato nella stanza e io gli ho dato una chitarra acustica - uno strumento su cui ho lavorato per costruire un nuovo tipo di suono. È il suono multi stratificato che potete ascoltare in brani come Love and War e Peaceful Valley Boulevard. Volevo che Neil capisse che ho passato anni a studiare e analizzare suoni nella tranquillità di casa mia e ci tenevo davvero a offrirgli qualcosa che non poteva aver mai ascoltato prima. Ha preso quello strumento che conteneva davvero tutto - un suono acustico, elettronico e di basso - e ha capito non appena ha iniziato a suonarlo che stavamo per portare le potenzialità della chitarra acustica a un nuovo livello. È difficile arrivare a realizzare un nuovo suono dopo 50 anni di rock‘n'roll, ma penso che ce l'abbiamo fatta».
Le reazioni, com'era ampiamente prevedibile, sono state quanto mai discordi. L'accusa più ovvia è quella che si tratti di un'operazione pretenziosa e che, alla prova dei fatti, la tecnologia si riveli più un'insidia che una risorsa, più una nemica sotto mentite spoglie che un'alleata affidabile. È un'accusa che è fin troppo facile sostenere, e che non farebbe fatica a trovare l'appoggio di moltissime giurie: esattamente come nei tribunali veri, la pietra angolare su cui poggia il verdetto dei giudici popolari non è altro che l'incrostazione dei loro pregiudizi. Una pietra robusta, a suo modo. Ma tutt'altro che preziosa.
Se l'unica domanda che si riesce a formulare è "mi piace?", il più banale dei no si trasforma in un rifiuto definitivo. Le Noise merita di meglio, di un giudizio sommario. Merita che lo si ascolti con l'attenzione (la dedizione) che un tempo era la norma e che oggi è quasi una rarità. Un tempo mettere la cuffia era l'inizio di un rito di concentrazione. Oggi, col dilagare degli auricolari, è l'esatto contrario: non ci caliamo più nelle profondità della musica, e quindi di noi stessi; ci lasciamo avvolgere da una nuvoletta di suoni più o meno risaputi e innocui, da cui possiamo riemergere in ogni istante con la lieta disinvoltura di chi non sta facendo nulla di davvero importante.
Neil Young, per sua e nostra fortuna, la pensa in tutt'altro modo. Ne ha viste tante. Conosce il sistema dell'industria musicale dall'interno. Sa benissimo che, come le "preghiere esaudite" stigmatizzate da Santa Teresa d'Avila con la celebre frase «Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte», avere dei pezzi di grandissimo successo è un'arma a doppio taglio. «Una hit è qualcosa di molto pericoloso. Devi stare molto attento: imbroccane un paio e sei fottuto, sarai sempre ingabbiato dentro il ruolo della popstar... ».
Neil Young, per sua e nostra fortuna, la pensa in tutt'altro modo. Ne ha viste tante. Conosce il sistema dell'industria musicale dall'interno. Sa benissimo che, come le "preghiere esaudite" stigmatizzate da Santa Teresa d'Avila con la celebre frase «Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte», avere dei pezzi di grandissimo successo è un'arma a doppio taglio. «Una hit è qualcosa di molto pericoloso. Devi stare molto attento: imbroccane un paio e sei fottuto, sarai sempre ingabbiato dentro il ruolo della popstar... ».
Meglio evitarlo a priori. Battere piste appena abbozzate, addentrarsi in territori impervi, sostare in luoghi dove potrà arrivare solo chi è altrettanto determinato. Continuare, alla vigilia del sessantacinquesimo compleanno, a credere che l'esplorazione non sia ancora finita. Tornare sui propri passi è sempre possibile, e non c'è niente di male a fermarsi di tanto in tanto a raccogliere il fiore profumato di un'armonia acustica, ma è solo andando avanti che si può scoprire qualcosa di nuovo.
Federico Zamboni
1 commento:
se dopo 35 anni che ascolti neil young ancora si versano lacrime all'ascolto di Pacefull valley significa che il Nostro ha colpito ancora
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