Il fondatore di Repubblica si racconta: dal fascismo all'Italia berlusconiana
Intervista a cura di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia del 17 ottobre 2010
L’intera civiltà moderna, ha scritto a suo tempo e con grande efficacia Eugenio Scalfari, è una foresta di contraddizioni, una grammatica irta di ossimori. «Bisognerebbe dedicare – aggiungeva – un libro, e non basterebbe, a questa nuova modalità del linguaggio, a questa rottura della forma e quindi del pensiero. In politica, nell’arte, in filosofia. È la debolezza e insieme la forza della modernità (ecco un altro ossimoro): di essere contraddittoria, aperta all’imprevisto, magmatica, pragmatica...». Chi meglio di lui allora per tentare di comprendere quello che sta accadendo nel “caso italiano”, dove la rottura dei vecchi schemi e l’emergere di apparenti contraddizioni è senz’altro la cifra più evidente?
Incontrarlo, lo ammettiamo, fa subito una certa impressione a chiunque abbia intrapreso la nostra professione. È indiscutibile che Scalfari rappresenti, insieme a Indro Montanelli, peraltro da lui molto diverso sia nella vocazione stilistica che nell’approccio alla politica, uno dei due più grandi giornalisti del nostro ’900. Quando nel 1976 Scalfari mandò in edicola la sua Repubblica – il giornale dal ’96 diretto da Ezio Mauro –trasformò di fatto tutti i quotidiani italiani e il modo stesso di scrivere le notizie... «È vero», ci dice, «la formula era quella di chiudere con la vecchia e stantia informazione paludata e fare un settimanale che uscisse tutti i giorni: io venivo dall’Espresso e avevo capito che quello era il futuro dei giornali. Il linguaggio doveva essere molto diretto. L’obiettivo era quello del “racconto” applicato alla politica e anche all’economia...».
Ce ne accorgemmo tutti, innanzitutto noi lettori. E via via tutti i quotidiani hanno dovuto seguirvi. Addirittura nella grafica e nella titolazione...
Certo, è avvenuto nella parte grafica e nel formato. Ricordo che a un certo punto bisognò scegliere la grafica di testata e titoli. Fino ad allora era tutto dominata dal “bastone”, un carattere nero che sopporta trentacinque battute. Ma io dissi: “Basta, ora i titoli devono cantare”. Ero convinto che dovessero essere in endecasillabi. Tanto per dire: i titoli con Craxi e Fini sono perfetti… Nomi brevi per frasi brevi. Poi io scelsi il “bodoni” e lo rinforzai con i caratteri Times. Un titolo con le grazie ma che più di venti battute non le tiene. Lo feci per avere un limite e, ripeto, per avere “titoli cantabili”. E nacque così un giornale nazionale e popolare...
...e fondamentalmente trasversale. Pochi tendono a ricordarlo ma su “Repubblica” sono apparse le prime inchieste serie, firmate da Enrico Filippini, sulla “nuova destra”, e sempre sul vostro quotidiano comparvero interviste ad Almirante che diceva di capire anche dell’altra parte. Memorabile quella di Sebastiano Messina dell’87 in cui il leader missino diceva: «No, i partigiani non erano banditi». Sempre su “Repubblica” hanno firmato scrittori come Pietro Citati, Roberto Calasso, Geminello Alvi, Franco Volpi che non si possono banalmente schiacciare a sinistra. Certo poi, tra la fine del ’93 e l’inizio del ’94, il fino ad allora vostro Gianni Baget Bozzo passò al “Giornale”....
Purtroppo è vero: fino al ’94 eravamo, come volevamo essere, trasversali. I nostri lettori andavano dai liberali conservatori all’estrema sinistra. Ma quando arrivò Berlusconi e spaccò in due il paese, noi perdemmo molte copie. E in qualche modo in un’Italia semplificata venimmo schiacciati da una parte...
Di voi si è sempre detto che avete fatto un “giornale-partito”, un quotidiano in grado di fare politica in quanto tale...
Cosa che rivendico. “Repubblica” è infatti un giornale autoreferenziale e lo è da sempre. E mi spiego: un giornale deve essere autoreferenziale rispetto al vaglio del mercato. Naturalmente però, perché ha un pensiero proprio, deve poter affrontare le cose anche in modo sgradevole per un eventuale gruppo di lettori. Lo sa che ultimamente noi siamo bombardati di critiche perché “stiamo con un fascista…” che poi sarebbe Fini? Ma io aggiungo: in compenso abbiamo una trasversalità in più. Perché per noi l’evoluzione finiana è oggi una “trasversalità” che si aggiunge ai nostri lettori. Da sempre noi siamo portavoce di una struttura di opinione che ha un suo nucleo stabile e poi si è via via ingrandita. A quel nucleo stabile noi rispondiamo, ma in quanto giornale che si autofinanzia rispondiamo pure al nucleo non stabile che si sta aggiungendo. Rircordo che ormai siamo in testa di 40mila copie quotidiane al “Corriere della Sera” (che però ha più abbonamenti) nella vendita in edicola...
Qualcuno dei vostri detrattori dice che è il “Giornale” a essere un po’ diventato come “Repubblica”: fanno tutti e due “dossier”. Lei come replica?
C’è una differenza un po’ sottile, ma decisiva. Il problema non è pubblicare vicende che riguardano Fini o Emma Marcegaglia. Il problema è quando tu mandi un messaggio mafioso. Ecco la differenza. Tu cominci un’inchiesta e poi fai sapere alla persona “ti conviene ravvederti, altrimenti si continua…”. Pensate al dossier su Fassino o a tutta l’inchiesta Mitrokhin. Roba incredibile. Ripeto: noi non abbiamo mai fatto cenno a messaggi mafiosi, così come non siamo mai entrati nel gossip. Ci siamo entrati quando una certa vicenda è diventato fatto pubblico: la moglie di Berlusconi ha diramato la lettera alle agenzie e il premier è andato a “Porta a porta” a dire una serie di cose. E noi abbiamo iniziato lì, per dimostrare che aveva detto cose non vere. Avete visto “Goodnight & Goodluck”? Ecco. Domande sui fatti, non un messaggio mafioso: abbiamo pubblicato, senza farci per un mese il titolo di prima pagina, dieci domande e mai “recapitato” qualche pizzino. Per il resto, mi lasci dire... loro fanno un libello, noi facciamo un giornale.
Del resto questi due diversi modi di intendere il giornalismo vengono da lontano. Tanto per semplificare: una cosa è la tradizione che viene da voi del “Mondo”, un’altra quella che deriva da “Lo Specchio” o “La Notte”...
In effetti quando io cominciai a occuparmi dei problemi del paese, da giornalista ma anche da cittadino, approdai naturalmente agli amici del “Mondo”, che erano i più congeniali al mio modo di pensare. Era il 1949 e avevo 25 anni che per allora e comunque per me era l’uscita dall’adolescenza. Quando arrivai al “Mondo” non sapevo quasi niente. Eppure mi ritrovai in sintonia con loro e con la loro convinzione di sentirsi “stranieri in patria”. Avevamo davanti due chiese che promettevano due diversi paradisi. Però, siccome noi non credevamo nei facili paradisi e detestavamo le chiese, ci sentimmo fin da allora “stranieri”.
Nel secondo dopoguerra Ennio Flaiano descrisse nel migliore dei modi il sentimento comune di tutta una generazione intellettuale scrivendo: «La nostra generazione l’ha preso in culo. I preti da una parte, i comunisti dall’altra». La vostra generazione si trovava a dover fare i conti con due blocchi conservatori che cozzavano come macigni contro il rinnovamento: la Dc e il Pci.
È vero e la passione del giornalismo si alimentò proprio in quel clima. Fondamentale per me non l’incontro con Pannunzio ma quello con Ernesto Rossi che mi spiegò molto con quello che lui scriveva. Lui diceva soprattutto che occuparsi di economia su un giornale, quindi non scrivendo studi o trattati, imponeva l’obbligo della chiarezza. E non si riesce a essere chiari se non polemizzando con un avversario. Quindi l’economia trattata su un giornale doveva essere “di parte”. Lui infatti faceva un’economia d’inchiesta, orientata. Ma a cosa? Orientata alla libera concorrenza. Quindi capitalistica e non marxista. Una libera concorrenza la quale però metteva in discussione innanzitutto la distribuzione del reddito. Lo capii rapidamente e trasformai in inchieste giornalistiche tutta l’economia politica che avevo studiato all’università, dove avevo avuto come docente Giuseppe Ugo Papi, allora una specie di santone dell’economia che dietro il cappello della retorica corporativa in realtà insegnava le leggi dell’equilibrio economico...
Un giornalismo impegnato, l’opposto dello scandalismo e di una certa erudizione giocata sul bello scrivere...
Sì, a noi il giornalismo ci salvò dallo snobismo. In che senso? Andando avanti, infatti, attraverso giornali che erano fatti con mezzi e obiettivi editoriali molto diversi dal “Mondo” noi ci ponemmo l’obiettivo di fare una stampa che vivesse sul mercato. E infatti “l’Espresso” vendette subito tra le 60 e le 70mila copie. Con “Repubblica” si spingemmo molto oltre. Ma tutto questo perché abbiamo avuto come programma quello di trasformare gli “stranieri in patria” in maggioranza nel paese.
Nel dicembre del 1955 lei, insieme a Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Guido Calogero, Giovanni Ferrara e Marco Pannella, fu tra i fondatori del primo partito radicale. E poi?
Guardi: ho votato per molto tempo repubblicano, poi sono stato anche deputato prima come indipendente e poi iscritto al partito socialista, corrente lombardiana e poi giolittiana. Quindi ho anche votato per il Pci, così come oggi voto Pd. Insomma, ho votato più a sinistra rispetto a quella cultura liberale che continua però a essere la mia cultura. Quando ci trovammo con Berlinguer ad avere un rapporto non solo professionale ma privato, feci di tutto attraverso “la Repubblica” per arrivare alla cosiddetta democrazia compiuta. Mi ricordo ancora il primo articolo che scrissi su questa linea: “Se Berlinguer diventa liberale”. Comunque alla fine sono diventati democratici, perdendo per strada tutta quella vasta platea che ancora credeva nel paradiso di Baffone.
Quindi, potremmo definirla un laico-riformista, un irregolare liberale che ha cercato di fare politica attraverso i giornali. Ma nel suo recente libro “Per l’alto mare aperto” (Einaudi), ricorda l’inizio del vostro percorso e dice: «Eravamo stanchi di pose eroiche, di cuore da lanciare oltre l’ostacolo...».
Be’, io sono nato nel 1924 e sono stato parte del fascismo. Sono stato balilla, avanguardista, giovane universitario. Mio padre aveva fatto la Grande Guerra e dopo era andato a Fiume, aveva il culto del Vate. Non era antifascista, ma un fascista antimussoliniano. Quando si faceva la barba, sputava sullo specchio dicendosi: “Sei un suddito di Mussolini”. Era un dannunziano a tutto tondo. Avendo ereditato la sua biblioteca ho ancora la prima edizione Treves di D’Annunzio. Per me D’Annunzio era tutto: il poeta, il romanziere. Il sabato io dormivo con mio padre, perché lui mi leggeva Carducci e D’Annunzio. Lo sa che la titolazione delle prime pagine che “Repubblica” introdotta da “Repubblica”, i titoli che devono cantare, deriva da quelle serate con mio padre? Poi con papà la Rivoluzione francese era un mito. Insomma, io sono stato fascista. Ho cominciato a scrivere su “Roma Fascista”. E perché ero fascista? Ma cos’altro avrei potuto essere? Quando arrivai a fare il fascista universitario, la divisa era splendida: una giacca sahariana a vita, nera, i pantaloni grigio-verde di stoffa da ufficiale, fatti da cavallerizzo, con lo sbuffo e non alla zuava. Poi stivali, cinturone, fazzoletto e losanghe azzurre con il fascio littorio in oro e idem sulle spalline. Andavamo a prendere le ragazze in Chiesa alla domenica e facevamo un figurone...
E poi che accadde?
Che alla fine del ’42 scrissi degli articoli messi in neretto senza firma, in cui dicevo: «Questo partito non va bene, è diventato di massa e invece doveva guidare, ci sono gerarchi corrotti, che speculano». Posso dirlo: insomma quello che avete fatto voi nel Pdl! Al terzo, ricevetti una telefonata, venni convocato in divisa a Palazzo Littorio, dove oggi c’è il Coni. Ci fu un processo. Mi dissero: «Tu mi dici i nomi di questi gerarchi profittatori, e se è vero li mandiamo in galera». Ma io dissi di non saperlo, e lui: «Accusi il partito senza sapere i nomi?». Volevano espellermi da tutte le università del regno, ma siccome mio padre era stato legionario fiumano si limitarono a cacciarmi dal Guf. Feci il saluto romano e me ne andai. Passai giorni di depressione. E allora pensai: «Forse, se mi hanno cacciato, non sono fascista…».
E cominciava da questo episodio il suo viaggio in mare aperto...
Decidemmo di andare agli esami senza camicia nera. Poi quando mi trasferii a Sanremo con i miei, insieme al mio amico Italo Calvino decidemmo di fondare il movimento liberale indipendente. Che eravamo lui e io...
Leggendo il suo ultimo libro si scopre che i suoi autori di riferimento sono Goethe, Montaigne, Rilke e il Nietzsche di Giorgio Colli. Stupisce che a destra facciano finta di nulla...
Tre giorni fa è venuta Renata Colorni che dirige i Meridiani per dirmi che me ne dedicano uno. E Gallimard traduce il mio ultimo saggio.
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