Articolo di Graziella Balestrieri
per L'eminente dignità del provvisorio
"Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso". (M.Proust)
N.S.
In ogni opera di Svevo vidi me stessa.
Non nacqui in una famiglia borghese. Mio padre lavorava tutto il giorno e lo vedevo poco, però aveva l’attenzione giusta e capì subito che i libri mi piacevano e ogni settimana sin da piccolina mi comprava un volume nuovo, che io puntualmente leggevo sottolineavo e poi capivo dopo. A quei tempi, prima del Liceo, in casa c'erano solo libri politici, destra e sinistra, tanto è vero che ebbi una confusione mentale che dura sino ad oggi. Ovvio, mia mamma berlingueriana e mio padre un fascistone. E vabbè, non tutti i mali vengono per nuocere. Leggevo pure quelli, ma non mi entusiasmavano, sì la storia era interessante, ma quel modo di scrivere non mi esaltava. A 17 anni mi accorsi di un libro che stava lì. Una vita, Italo Svevo.
Non so di preciso cosa mi incuriosì, ma iniziai a leggere e poco tempo dopo in classe capii il perché. Nei temi andavo sempre fuori traccia, è vero, ma perché mi annoiavo e le trovavo stupide, per cui scrivevo quello che mi andava. Dopo aver letto Una Vita, iniziai ancora di più a fare di testa mia, seguivo solo il flusso della mia coscienza, e quando in un tema in classe pensai di aver scritto un qualcosa di magnifico la prof ai colloqui disse a mio padre "Sua figlia scrive in modo strano, mette virgole e punti dove vuole, e cambia le tracce, argomenti interessanti, ma ha qualche problema?". Mio padre disse “bu, legge sempre, se questo è un problema non lo so”. Io sorrisi ed ero pienamente soddisfatta, una prof che io consideravo la quinta essenza della borghesuccia messa lì a insegnare non capiva come scrivevo. Io che la lingua tagliente non l’ho mai riposta, le dissi “si vede che lei non ha mai letto Svevo o Joyce”. Lei non rispose e da allora i miei voti in italiano aumentarono in maniera indescrivibile. Il quinto anno cambiò insegnante, arrivò e quando fu il tempo di “spiegare” Svevo disse testuali parole “Svevo era pazzo, un fissato con la malattia, facciamo poco”. Io andai su tutte le furie e le testuali mie parole non credo di ricordarle, ma la prof diceva di non agitarmi e disse “se ti piace tanto spiegalo tu”. Io mi alzai e spiegai, ma questo episodio lo legai al dito. Agli esami di stato, quando lei voleva farsi bella con me su Svevo dinnanzi alla commissione esterna, mi alzai con la sedia e passai a Filosofia. Un libro non ti cambia la vita, ma te la stravolge. Una vita fu per me, e poi più tardi La coscienza di Zeno, una catastrofe positiva che avrebbe fatto di Svevo un mio “padre letterario”.
Per la prima volta mi trovavo davanti a due vocaboli che mi giravano intorno, ma che non sapevo definire: inetto e borghese. Iniziare a guardare le cose di “sbieco”….la vita, prenderla di sbieco. Così dove tutti guardavano dritto per dritto iniziai ad inclinare la testa, per avere una prospettiva diversa. I personaggi, a me cari, da Alfonso Nitti a Zeno Cosini avevano tutti un filo conduttore: non nasci borghese ma qualcuno ti costringe a diventarlo, ma una soluzione esiste: l’ironia. In Italia non è stato molto amato, capirai il piccolo borghese qui domina e la fa da padrone. Vivere: un impiego statale, una famiglia, i figli, i pranzi con i parenti. L’amante. Tutto regolare. Troppo regolare. Così Svevo che poi è in Una Vita e ancor di più in Zeno Cosini e Senilità si ritrovava ai tempi a vivere in maniera parallela la “malattia” della scrittura e la “salute” dell’impiegato di banca con la famigliola perfetta. La differenza tra salute e malattia. Cosa è sano, cosa è malato?
L’inetto sveviano si trova in un mondo che non ha voluto, costretto a vivere “una vita” che non è la sua ma è quella che gli altri vorrebbero che fosse. Matrimoni per convenienza, bei vestiti, un’amante. Un torpore borghese che uccide ogni apertura mentale. Così in Svevo la malattia è la cosa più “sana”, quella che può sconfiggere la salute borghese. La rinuncia a essere sani nei suoi racconti è l’unico modo di affrontare il buio: “Si trovava, credeva, molto vicino allo stato ideale sognato nelle sue letture stato di rinunzia e quiete. Non aveva più neppure l’agitazione che gli dava lo sforzo di dover rifiutare. Non gli veniva offerto più nulla; con la sua ultima rinunzia egli s’era salvato, per sempre , credeva, da ogni bassezza a cui avrebbe potuto trascinarlo il desiderio di godere”(Una vita).
Ettore Schimtz , il vero nome dell’austro-italiano Italo, nasce a Trieste nel 1861, quando l’Italia diventa Italia. Per quanto mi riguarda, nonostante ai licei la vita degli scrittori si riduce al “nasce, vive muore e queste sono le opere”, la cosa importante che viene tralasciata è: il vissuto, l’ambiente che lo ha portato a scrivere. Ed è fondamentale in Svevo perché per seguire quel flusso di coscienza che Proust ritrova nel passato, Joyce ritroverà e perderà nel raccontare le mille vicissitudini della sua terra, nonostante l’esilio volontario, nel raccontare il proprio vivere si riesce a capire se stessi e a scavare nell’animo della gente che ti circonda. Non venne mai considerato un esteta della scrittura, alcuni addirittura arrivarono a dire "che non sapeva scrivere", un dilettante. Ma Svevo per uscire dai canoni della perfezione dell’ideologia naturalista in un qualche modo ha dovuto cercare la via migliore per raccontare e capire se stesso: la normalità. Scrivere in maniera normale, come farebbe una persona normale. Non fu mai “un esaltato” della vita al pari di D’Annunzio, nemmeno alla ricerca della bellezza, non ha mai voluto trovare altro che il significato stesso della vita. E come si fa a trovare l’essenza della vita se non si ricerca prima il proprio essere?
Così, nel sembrare un pessimista di natura, cerca nei suoi personaggi la chiave per descrivere l’uomo che cade in piedi. Che non è semplice, perché se cadi il segno di un livido ti rimane, cadendo e rimanendo in piedi il dolore lo senti solo dentro. Non è fisico, è solo mentale. Alfonso Nitti, bancario che lascia la mamma e si ritrova in una città che non sembra appartenergli, a cui non vuole appartenere, il personaggio di Una vita ricalca l’archetipo del debole, di colui che si arrende all’amore perché non è amato dalla donna che vorrebbe, che si arrende alla perfezione e alla cura estetica del collega che lo snerva nel suo essere borghese e arrivista, si arrende alla distanza inevitabile del suo capo, il Maller. Solo la morte per quanto crudele e distante, riuscirà ad avvicinarlo alla perfezione della vita, ma questo nemmeno servirà ad sentire più vicini quelli che lui considerava mal volentieri “colleghi”."La Banca Maller, in puro stile burocratico, annuncia un funerale che avviene con l’intervento dei colleghi e della direzione" (Una vita). Alfonso, che si dà colpe non sue, scriverà alla mamma: “Non credere, mamma, che qui si stia tanto male; sono io che ci sto male”. Non faceva nulla e quel nulla lo portava ad avere un’inerzia totale dinnanzi alle cose. Non era stanco, era solo annoiato. Tutti i giorni lì su quella sedia, tutti i giorni a subire e non capire, tutti i giorni un pezzo di vita che si vedeva portar via, ma la cosa assurda è che mentre gli altri “sembravano” contenti di vivere così, Alfonso era contento di non vivere. Avrà ragione Joyce a dire che nella penna di un uomo c’è un solo romanzo e che quando se ne scrivono diversi si tratta sempre del medesimo più o meno trasformato. Così da Una Vita si passa alla Coscienza di Zeno, che nel 1924 Svevo spedisce al suo ormai amico Joyce, trasferitosi a Trieste e suo professore di inglese che Livia Veneziani Svevo descriverà così: “Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d’altissimo ingegno e lo scolaro d’eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori dal comune”. Joyce, entusiasta del suo “allievo”, fa conoscere il manoscritto in Francia dove verrà pubblicato. In Italia sarà per merito di Eugenio Montale, sulle pagine della rivista L’Esame, che Svevo riuscirà ad avere la prima notorietà. Zeno Cosini che cerca di guarire da una malattia non ancora ben definita ed inizia il percorso psicoanalitico presso il Dottor S. Dottore che, per quanto poco si sforzi di capire il problema, non riuscirà a farlo e nel momento dell’abbandono della terapia da parte di Zeno si vendicherà pubblicando le memorie del suo paziente con la speranza che questo gli procuri dolore. Ma Zeno, che è più impegnato ad amare la sua sigaretta non farà altro che ridere e deridere il suo analista.
Come poteva credere di guarirlo se la cura consisteva nel dovergli togliere l’unica cosa che lo faceva stare bene: la scrittura. Zeno sapeva benissimo che ciò che lui imputava al fumo, "il veleno che mi scorre nelle vene, questo mi procura nevrosi", non era la causa principale del suo malessere. Un mondo popolato da borghesi, alla ricerca del vivere bene, della salute, di tutto ciò che deve apparire, di tutto ciò che è importante per gli altri. Mai qualcuno a chiedersi se quello che vedi è quello che senti, mai nessuno a chiedere se quello che vivi ti appartiene. Zeno sposerà Augusta, brutta ma dolcissima, sorella di Ada di cui lui era innamorato ma che preferì il borghese e mondano Guido. Così dopo la delusione si autoconvincerà che Augusta è la donna della sua vita. Non più gli altri che ti convincono. Lo spazio vitale è talmente ristretto che ti autoconvinci. Non starò qui a elencare e descrivere pezzo per pezzo i capitoli della Coscienza di Zeno. Solo il fumo. Si iniziai a fumare per colpa di Zeno. Non riuscivo a capire perché quel modo ossessivo di parlare di un qualcosa che io avevo sempre cercato di evitare a mio padre. Iniziai a fumare Davidoff, marca tedesca, perché Zeno iniziò con quelle di marca tedesca.
Stupida come cosa, ma immediatamente riuscii a capire il veleno che ti attraversa le vene, riuscii a capire quanto sia debole un uomo dinnanzi ad un vizio, che non ti serve, che non è utile, che è dannoso, ma diventa vitale. E più di tutto mi impressionò in Zeno il tentativo di voler smettere e la volontà certa di non farlo mai. Il medico della casa di cura dove venne “rinchiuso” per smettere di fumare gli dice:"Non capisco perché lei, invece di cessare di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma". Il non averci mai pensato di Zeno risulta l’immagine migliore del romanzo, il dolore che vivi dallo stacco brutale da un qualcosa a cui sei morbosamente legato ti ripaga dell’amore per cui morbosamente sei legato a quella cosa. Così o si rinuncia in maniera totale o non si rinuncia. Così Zeno passerà ogni sera ad annotare una U.S, un’ultima sigaretta mai spenta.
La morte del padre, che avrà la forza di dare un ultimo schiaffo al figlio, agli occhi di Zeno risulta non minaccioso e imperioso, solo un ultimo gesto per rimanere attaccato alla vita. In fondo lo schiaffo sarebbe stato solo la continuazione del loro rapporto. L’incomprensione non avrebbe avuto vita in una carezza. Sposando Augusta, Zeno non aveva scelto, era uno che si lasciava scegliere. Le alternative erano poche. Così un’amante che non dà problemi ricalca perfettamente lo stile borghese. La famiglia perfetta e il marito con l’amante. Capitolo a parte è Senilità, che fu un insuccesso per l’ormai famoso Svevo. Emilio Brentani e Amalia, sua sorella, sono l’immagine della sconfitta e a loro fanno da contraltare Stefano Balli, rude e senza coscienza, e Angiolina, che secondo Svevo vive in un eccesso di illusioni. Emilio perderà letteralmente la testa per Angiolina, convinto dall’inizio che ella sarà solo un giocattolo che poi lui non sarà più in grado di far funzionare. Più aumenta la passione, più svanisce ogni cosa. Senilità è il romanzo della distruzione, dell’uomo che conosce il passaggio del piacere piccolo borghese e si avvicina alle idee proletarie. In tutto questo va detto che il romanzo è molto più fluido e ben scritto rispetto agli altri, ma forse per questo è distruttivo, descrive un piccolo borghese Emilio che ha vissuto in maniera mediocre e riesce a vivere il romanzo che non saprà scrivere mai. Scrivere è una cosa, l’aver vissuto è un’altra. Così lo stesso Svevo scriverà: "Io a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura". L’immagine che ho sempre avuto attraverso gli occhi di Svevo è come dire: provate a immaginare un uomo che cammina lentamente in mezzo al traffico, la gente corre, spintona, cade, si rialza, fa finta di niente, se ti osservano è solo per un motivo, per vedere quello che indossi, se cercano conversazione è solo per sapere i fatti tuoi. Così chi non corre passa in mezzo alle macchine e tutti a suonare con i clacson. "Spostati idiota, qui si corre". Ho sempre pensato che i romanzi di Svevo fossero quel momento in cui tu ti fermi, ma non perché gli altri lo vogliono. Lo decidi tu e se sai fermarti bene, se trovi la chiave, l’ironia, fai si che le macchine degli altri vadano a sbattere una contro l’altra e tu rimani lì: con il sogghigno arguto, con la testa inclinata, a guardare la vita di sbieco. Se cammini correndo, non osservi. Se rimani fermo lo fai. L’inetto sveviano non subisce alla fine, sceglie di subire: è diverso. Non sarà stato uno scrittore eccelso, banale a tratti, ma è stato l’unico a saper descrivere il flusso della vita nell’uomo: esiste qualcosa di più banale e complicato dell’uomo?
“Svevo riuscì a descrivere l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni”(Eugenio Montale)
N.SGraziella Balestrieri
Calabrese, costelliana più di Costello, maniacalmente devota a Svevo e Joyce, collabora con Area, il Fondo magazine e L'eminente dignità del provvisorio.
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