Dal Secolo d'Italia di mercoledì 6 ottobre 2010
Oggi sono diciotto mesi dal sisma de L’Aquila, ma nel capoluogo abruzzese di festeggiare non c’è voglia. Se l’emergenza è stata affrontata con indubbia tempestività, la ricostruzione sembra segnare il passo e la cronicizzazione dei disagi non li rende più tollerabili. Tanto che a qualcuno potrebbe sfuggire un classico “Si stava meglio quando c’era lui”. E il lui in questione non sarebbe Mussolini né Berlusconi, che pure nelle settimane post-terremoto era di casa (si fa per dire) a L’Aquila. Ma Adelchi Serena (classe 1895), il politico aquilano più importante del Novecento.
A lui si deve, negli anni Trenta, la modernizzazione della città e non è un caso se gli edifici fatti costruire dall’allora podestà hanno resistito alla violenza delle scosse mentre palazzine molto più recenti sono venute giù senza opporre la minima resistenza. A Serena, equilibrato, moderato e rispettoso com’era degli avversari politici, una battutaccia come quella di Ciarrapico sulla kippah non sarebbe mai venuta in mente. In privato non si faceva scrupolo di liquidare le leggi razziali come “pagliacciate” e il suo nome, coerentemente, non compare tra i 360 che firmarono il Manifesto della Razza, salvo poi scoprirsi antifascisti dopo il 1945. Eppure l’essere stato un fascista convinto e aver ricoperto con zelo incrollabile (aggettivo che più fascista non si può) l’incarico di segretario nazionale del partito non gli risparmiarono l’accusa di tradimento. La colpa? Non aver voluto aderire alla Repubblica Sociale. Costretto a vivere in clandestinità e braccato dai tedeschi, nel dopoguerra venne assolto da ogni addebito e restituito all’affetto dei suoi concittadini, compresi gli antifascisti, che si affrettarono a testimoniarne il rigore morale.
(nella foto lo storico aquilano Walter Cavalieri, coautore del libro)
«Gli aquilani lo tennero sempre in considerazione sia per il prestigio che aveva avuto in passato, sia per le sue doti umane e la cordialità del suo carattere». È quanto scrivono due storici abruzzesi, Walter Cavalieri e Francesco Marrella, nel loro recentissimo libro Adelchi Serena, il gerarca dimenticato (Edizioni GTE, pp. 270, € 30), grazie al cui contributo il politico aquilano – a quarant’anni esatti dalla morte – viene sottratto alla damnatio memoriae cui sembrava condannato. L’opera, quanto mai necessaria in una storiografia ancora inquinata da luoghi comuni, spazza via a colpi di documenti riservati e carteggi privati inediti le leggende che avevano trasformato un amministratore capace in una specie di persecutore di ebrei e criminale di guerra (lui, che di guerre ne aveva fatte due, la prima da volontario e la seconda speditovi per punizione dalle cricche affaristiche e filo-naziste del regime). Come ricordano gli autori, «nel trigesimo della sua morte “un noto professionista aquilano, antifascista silenzioso ma tenace”, scrisse un articolo su L’Aquilasette che si conclude così: “Nelle opere veramente notevoli che realizzò si espresse l’uomo che difese per vent’anni e strenuamente la Città dalle insidie dei pirati della costa. Fu un grande aquilano e il gonfalone del Comune alle onoranze funebri forse se lo meritava”».
Sì, perché prima ancora che per la sua brillante ascesa politica a livello nazionale – deputato nel 1924 a soli 29 anni, ministro dei lavori pubblici, membro del direttorio nazionale, vice segretario e infine segretario del partito dall’ottobre 1940 al dicembre 1941 – Serena si fece apprezzare proprio nel suo ruolo di primo cittadino - podestà si diceva allora - dell’Aquila (incarico che ricoprì dal 1926 al 1934). Suo l’ambizioso progetto della “grande Aquila” che, nel giro di pochi anni, cambiò il volto e le ambizioni della bella ma pigra “capitale settentrionale” dell’antico regno borbonico, dedica alla pastorizia e ai commerci, trasformandola in una nuova città monumentale, ricca di uffici pubblici, scuole, strutture culturali, sportive e assistenziali all’avanguardia. E valorizzandone – grazie al Gran Sasso – le inespresse potenzialità turistiche con investimenti mirati.
Cavalieri e Marrella hanno il merito di raccontarne con dovizia di particolari e con rara oggettività l’intensa esperienza amministrativa senza mai incedere nell’agiografia ma sottolineandone anche i limiti: la crescita esponenziale dell’Aquila – sottolineano – venne portata avanti anche a danno dei comuni immediatamente limitrofi, annessi d’autorità. Il nome di Serena – che nel dopoguerra stabilì la sua residenza a Roma, dove morì nel 1970 – tornò ad affacciarsi sulle cronache politiche abruzzesi soltanto nel 2001 quando l’allora sindaco dell’Aquila Biagio Tempesta, alla guida di una coalizione di centrodestra, decise di intitolargli la piscina comunale, opera che, come tante altre, era stata fortemente voluta da Serena. Scoppiò il finimondo, l’opposizione insorse e la controversia riaprì il dibattito anche tra gli storici, pronti a rimproverare non precisate responsabilità morali al politico aquilano. Con alcune voci fuori dal coro, come quella di Umberto Dante, docente di storia all’università di L’Aquila e presidente dell’istituto abruzzese per la storia della Resistenza: «Mi sembrò una proposta ragionevole – ci dice – che rendeva merito a un politico che ha dato tutto se stesso per questa città, che porta tutt’oggi l’impronta del suo progetto. Serena aveva posto la città in cima ai suoi interessi fondamentali, dimostrando un senso civico non comune». Tuttavia, alla fine prevalse il cerchiobottismo e a Serena è rimasta solo una targa all’ingresso mentre la struttura è ora intitolata a Ondina Valla, la prima donna italiana ad aver conquistato l’oro olimpico.
Salvo questa breve parentesi di ritrovata “popolarità”, Serena tornò nel dimenticatoio. Pochi storici se n’erano occupati e con una certa malcelata sufficienza. Se Matilde Lucchini nel suo I gerarchi del fascismo liquida Serena con due parole - «un grigio» - Emilio Gentile ne La via italiana al totalitarismo ne rivendica invece l’importante ruolo svolto anche all’interno del fascismo: «Nessuno – denuncia lo storico – ha preso in considerazione la politica del partito nel periodo della sua segreteria, da tutti ritenuta senza importanza e limitata a una gestione di ordinaria attività burocratica». In realtà, com’è ampiamente provato dal libro di Cavalieri e Marrella, Serena prese molto seriamente il suo compito, «rivendicando al partito il ruolo centrale di guida della rivoluzione fascista» e andando persino al di là delle aspettative del duce che, nel nominare il fidato Serena alla segreteria del partito in sostituzione del deludente Ettore Muti, avrebbe preferito «un mero esecutore di ordini, efficiente ma poco intraprendente». Una specie di replicante di Achille Starace, zelante quanto inoffensivo, un propagandista con buone capacità organizzative ma niente di più.
Serena, però, che di Starace era stato il principale collaboratore in qualità di vicesegretario, si dimostrò subito diverso, con idee del tutto autonome e progetti politici tutt’altro che modesti, rivendicando l’autonomia del partito rispetto al governo e insistendo, da simpatizzante del fascismo legalitario e liberale di Bottai, sulla necessità di una forte azione moralizzatrice che avrebbe dovuto rigenerare il fascismo. Come scrivono gli autori, il suo «staracismo si dimostrò sobrio, ammortizzato, ripulito dai noti eccessi formali e marziali, mitigato nelle sue forme di culti maniacale e nei suoi aspetti esteriori spesso ridicoli» dedicandosi per lo più alle iniziative sociali e al controllo dei prezzi nei primi difficili mesi della guerra. Finendo, però, per indispettire lo stesso Mussolini che, indisponibile a cedere quote di potere ad altri, con un pretesto lo depose spedendolo a combattere in Croazia con i vecchi gradi di maggiore dei bersaglieri conquistati nella Grande guerra.
La storia, con il 25 aprile e poi con l’8 settembre, prende un’altra piega e Serena, già da tempo scettico rispetto all’alleanza con i tedeschi, si chiama fuori. Per sfuggire alla reazione dei nazisti e al rancore degli antifascisti, conduce una difficile vita da clandestino. Fino al luglio del 1947 quando, dopo un lungo processo, l’Alta Corte di Giustizia di Roma lo assolve in via definitiva. Resiste alla tentazione della politica, al corteggiamento della Dc ma anche del Msi. Muore a Roma il 27 gennaio del 1970, non senza aver rivolto ai figli le sue ultime parole: «Mi raccomando l’onestà». Era la sua ultima preoccupazione. Lui che, figlio di un commerciante, era diventato avvocato e poi politico tra i più potenti d’Italia, senza mai arricchirsi. «L’unico affare della mia vita – confidava con l’ironia che lo caratterizzava – l’ho fatto sposando mia moglie».
Roberto Alfatti Appetiti
Roberto Alfatti Appetiti
2 commenti:
caro Roberto
sono Francesco Marrella, uno degli autori del libro che hai appena recensito. Per prima cosa devo congratularmi per l'analisi lucida e puntuale che hai operato e per la chiarezza e l'originalità con cui hai esposto le tue impressioni. Inoltre vorrei congratularmi per la qualità delle pagine cultarali del Secolo d'Italia; per una piccola testata giornalistica non deve essere cosa da poco riempire gli spazi dedicati alla cultura con la ricercatezza che vi caratterizza. Sintomo dell'importanza che gli attribuite, non può che farvi onore. Non è d'altra parte in discussione ne la lucidità politica dell'on. Perina, ne lo spessore culturale e intellettuale del direttore responsabile Luciano Lanna. Quindi di nuovo complimenti al tuo lavoro e al giornale col quale collabori. Un caro saluto.
Francesco
Grazie Francesco, le tue parole mi hanno fatto davvero piacere, il libro mi è piaciuto molto e ci tenevo a presentarlo adeguatamente. Complimenti a te e Walter per il lavoro prezioso quando necessario che avete svolto, confido di rileggervi presto. Speriamo, poi, di avere un'occasione per incontrarci di persona.
Roberto
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