Articolo di Domenico Paris
Da l'Occidentale di domenica 3 ottobre 2010
Risvegliarsi dal coma dopo essersi schiantato a duecento all’ora su una moto, ti fa pensare a un sacco di cose. A parte la fortuna di essere sopravvissuto, la prima constatazione (per niente allegra) riguarda il dove stai andando. Come uomo, s’intende. Perché scambiare una strada di città per un tracciato di motomondiale, non è certo sintomo di una semplice leggerezza. Soprattutto ad un’età, ventotto anni, nella quale sembra fin troppo ridicolo tirare in ballo la classica bravata e promettere di mettere la testa a partito.
No, non te la cavi con una tirata di orecchie da parte di mamma e papà, in certi casi. Arriva il momento di fare dei conti, lo sai. Ed è dura, soprattutto se pensi che fino al momento dell’incidente hai vissuto come se sulla terra non ci fosse che la tua regola. D’un tratto, per quanto ti possa sembrare di avere dentro il gene dell’immortalità, fai prestissimo a renderti conto che non è così, che devi rigare dritto. Perché una seconda chance non ti sarà data. Perché dopo esserti soltanto mezzo arrostito nelle fiamme del destino, un'altra alzata di testa contro la tua buona stella significherà il rogo sicuro. Urge una scelta, ecco tutto. Vivere o morire. Tertium non datur.
Insomma, esci dall’ospedale e sai che devi darci un taglio. Con un sacco di cose. La birra fiumi, per esempio. O il whiskey fino all’alba. Dello sballo psicotropo, neanche a parlarne (ricordi quando ti hanno messo dentro - primo musicista australiano, pare - per un tot di erba?). E di certo non sarebbe male lasciar perdere anche le scazzottate e i litigi feroci con mille donne raccattate un po’ qua e un po’ là nella tua esistenza da cane sciolto. Ricominciare dallo zero assoluto, ecco tutto. E dimenticare quel che è stato senza star lì a torturarsi. In fondo, non si può dire che non te la sia spassata, no? Un singolo in classifica come co-cantante dei Valentines, due buoni dischi e un tour europeo con i Fraternity, un sacco di storie da ricordare… Sarebbe davvero ingiusto sentirti un mediocre o, peggio ancora, un traditore di te stesso.
La prima tappa è cercare un lavoro normale e metabolizzarne i ritmi così diversi da quelli ai quali sei abituato. Magari, poi avanza anche qualche ora per fare una jam con gli amici e continuare a divertirsi in tranquillità. Così, dopo un po’ di ricerche, qualcosa salta fuori: guidare autobus. Sembrerebbe quasi un controsenso dopo l’incidente, ma è anche vero che si va piano, prima-seconda-terza, senza troppi pericoli. E poi la paga non è male. Accetti, un po’contrariato, certo, ma sai bene che bisogna provare, andare avanti. I mesi passano e senti che stai per arrenderti all’abitudine. Per quanto i tuoi demoni continuino ad assillarti, sei lì lì per ammainare bandiera bianca. Giusto un altro po’ di “trattamento” e sarai per sempre il signor Ronald Belford Scott. E basta.
Soltanto che in una giornata scialba come tante, succede una cosa strana. La ditta per la quale lavori ti ordina di portare in giro un gruppo di ragazzini che si sta facendo le ossa nell’underground rock australiano. Due di loro li conosci, perlomeno di nome. Si chiamano Malcom e Angus e sono i fratelli minori del tuo amico George Young. Hanno dato alla loro band un nome fantastico, AC/DC, per suggerire ai pochi temerari che li vanno a vedere la quantità di elettricità e di wattaggio che hanno intenzione di rovesciargli addosso. Il primo, quando sale sul palco, si mette al lato e bada a sparare riffoni potenti, da perfetto motore ritmico; il secondo, il piccolino, si veste da scolaretto e gioca a fare il matto con la sua chitarra che sputa fuori pentatoniche senza posa. Ti capita giocoforza di sentirli e, sì, devi ammettere che i due, per quanto acerbi, ci sanno davvero fare. Peccato che abbiano scelto per cantante un tipo, Dave Evans, in evidente distonia con il loro songwriting aggressivo. Se ci fossi tu al posto di quella mammoletta glam con gli zatteroni! Con quel paio di chitarre bestiali dietro, la tua voce renderebbe al massimo e ne verrebbe fuori un inferno e…
Succede, un giorno che siete in giro. Te lo chiedono così, tanto per sapere. Conoscono il tuo passato soprattutto dai racconti del fratello maggiore e ne hanno le tasche piene di Evans. Vorresti per caso provare con loro? La questione è seria, perché avevi promesso: una vita normale, niente più rockstar ring. E poi c’è la differenza di età, il fatto che tu un gran bel pezzo di strada l’hai già percorso. Hai avuto le tue gioie, i tuoi dolori. Sai cosa significa sfiorare il cielo con un dito e piangere disperato dopo essere inciampato in una buca del destino. Sì, non puoi non ammetterlo: sei un uomo fatto, tu, con il tuo vissuto intenso e burrascoso; loro, invece, dei semplici ragazzini pieni di entusiasmo, ma senza nessuna esperienza di vita sopra le righe. Come potrebbe funzionare? È nel bel mezzo di questo bivio che decidi di lasciar scorrere nelle tue riflessioni la sostanza più pura che ti scorre nelle vene. L’adrenalina.
Forse lo fai incoscientemente, forse, ad un’analisi obiettiva del tuo essere troppo avanti rispetto a loro, fai prevalere semplicemente una voglia matta di tornare dietro un microfono, urlarci dentro e provare a riconquistarti un futuro come lo hai sempre sognato. Fatto sta che ti fai convincere e a quella specie di provino decidi di andare. E va come non può non andare. Bastano un paio di pezzi e ti accorgi che tutto quel che è venuto prima doveva semplicemente portarti fin lì, in una sala prove scalcinata con due post-imberbi ad aizzarti e a tirar fuori quello che eri riuscito soltanto ad abbozzare in tanti anni precedenti. C’è un famoso proverbio a spronarti: chi nasce tondo, non muore quadrato. E, a questo punto, sai perfettamente che è ora di tornare in pista e fregartene di quel che sarà. Riconsegni le chiavi del bus in ditta e amen.
Trasformare gli AC/DC in una vera rock’n’roll band non è però cosa facile: i giovani Young sono ancora inesperti, hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a plasmare l’essenza e l’estetica di un gruppo come si deve, allontanandoli definitivamente da certi sterili manierismi e dalla paura di infrangere le regole tipici di chi si affaccia sulle scene le prime volte. La prima release (High voltage) di collaborazione serve più che altro a far capire loro qual è la direzione da seguire e in quale punto dell’anima si trova quella preziosa e rarissima sorgente dalla quale stillare la forza che ti fa andare contro il mondo col petto in fuori, senza paura di osare. Con She’s got the balls, nel cui testo ti diverti a dileggiare pesantemente tua moglie, dimostri come non ci si debba mai ritenere da nulla se si ha fiducia in quello che si sta facendo e si vuole arrivare.
Certo, la signora ti manda subito a quel paese (bye bye, bad baby), ma fornisci ai ragazzi una lezione di stile che non potranno più dimenticare. Ora sì che siete pronti per gettarvi davvero nella mischia. E, soprattutto, ti sei definitivamente riappropriato di te stesso, della libertà di poterlo di nuovo essere ventiquattro ore al giorno senza dover fare i conti con qualcuno che ti aspetta infuriato a casa. Altro che il signor Ronald Belford Scott! Bon Scott, tu sei Bon Scott, il trascinatore, l’animale da palco, il frontman della prossima next big thing. Stai arrivando.
Con l’arrivo di Phil Rudd alla batteria e di Mark Evans al basso, si comincia a fare sul serio. Gli AC/DC sono una vera band, ora, e basta fare un salto a vederli suonare dal vivo per rendersene conto. Live wire, The Jack e It’s a long way to the top (If you wanna rock’n’roll) sono una dichiarazione programmatica. Di guerra. Tu ormai sei di nuovo perfetto padrone della situazione e l’ugola al vetriolo che ti premeva sulla gola può finalmente scatenarsi sul tappeto sonoro che hai sempre sognato. Il resto lo fa l’imprevedibilità sul palco e un look essenziale, jeans e torso nudo, che ti rende la perfetta incarnazione del “macho” esagerato e oltraggioso che hai sempre voluto essere e che molta gente, stanca dei soliti pupazzi senza nerbo, sembra pronta ad adorare.
Dopo aver incendiato in lungo e in largo l’Australia, si può cominciare a guardare avanti. All’Europa. E all’America, il sogno di qualsiasi ragazzo nato al di qua dell’Atlantico. Si comincia dal vecchio continente, dove un lungo tour di supporto a Kiss, Aerosmith e Blue Öyster Cult permette di scaldare al meglio i motori e cementare i rapporti interni. Dire che sei arrivato al miglior stato di forma possibile, adesso, appare riduttivo: rituffarti appieno nel rock’n’roll way of life, infatti, ti ha fatto talmente bene che, a trent’anni suonati, sembri essere tornato una sorta di ragazzino alle prime esperienze.
L’entusiasmo che regali nelle performance dà un’inequivocabile prova che, stavolta, niente e nessuno dovrà provare a fermarti. E questo, ovviamente, vale anche per le ultime remore coscienziali e salutiste. D’altronde, se vuoi davvero salire sulla giostra della vita e vedere il mondo da una prospettiva diversa, quel che ci vuole è lasciar perdere le cinture di sicurezza e tanta voglia di non voler scendere mai. E tu questa voglia ce l’hai, scritta nel Dna come pochi prima di te. Ecco, allora, tornare la birra a fiumi e il whiskey fino all’alba. Lo sballo a tutti i costi e le sottane da inseguire prima e dopo i concerti.
Dirty deeds done dirt cheap è un’ulteriore tappa di perfezionamento. Tutto è rodato, collaudato. Si tratta soltanto di dare un’ultima, possente schiacciata all’acceleratore e affondare il piede sul pedale. Tu, Angus e Malcom state scrivendo delle canzoni sempre più convincenti, bilanciate. Avete finalmente raggiunto il grado di coesione necessario per coniugare semplicità e intuizione, elettricità selvaggia e liriche al limite (e oltre) della morale. E sapete perfettamente che la prossima volta che entrerete in studio, ne uscirete fuori con un lavoro decisivo, uno di quei dischi in grado di segnare non soltanto gli anni che state vivendo, ma di diventare un paradigma assoluto con il quale tutti dovranno confrontarsi nei tempi a venire.
Detto, fatto. Il 1977 è un anno cruciale per tante ragioni. In tutto il mondo montano ondate di protesta forse meno pubblicizzate rispetto a quelle del decennio precedente, ma non per questo meno importanti dal punto di vista delle ripercussioni sulla cultura e sulla musica in particolare. Il punk dilaga e prende a calci in faccia usi e costumi della scena rock degli anni Sessanta-Settanta, rea di essersi troppo istituzionalizzata e di indulgere in una insopportabile quiescenza nei confronti dei benpensanti. Ferocia ed essenzialità sonora, unite ad un modo completamente diverso di interpretare la vita e il ruolo di musicista, danno una scrollata sismica a tutto il sistema. A farne le spese sono un po’ tutti. Dai dinosauri che non sono riusciti a rinnovarsi e che ormai giocano alla pantomima di se stessi, alle presunte nuove leve che si baloccano in esecuzioni impeccabili e raffinate produzioni artistiche, cercando di risultare quanto più pop e rassicuranti possibili. È in questo momento così difficile che lanciate sul mercato un album il cui solo nome è già una perfetta dichiarazione di intenti: Let there be rock.
Basta un solo ascolto per rendersi conto che, stavolta, avete fatto centro su tutta la linea. Le chitarre dei fratellini Young non lasciano niente al caso: potenza, velocità e cuore sono un tutt’uno e, dal solo attacco di Go down, si ha l’immediata sensazione che di questo disco non ci si libererà per dei mesi, che sarà la colonna sonora che scuoterà i muri di un sacco di case, facendo scatenare orde di ragazzacci impenitenti e aizzando le maledizioni più risentite di tanti bravi genitori. L’egregio lavoro di basso e batteria, essenzialità e ritmo, completano a dovere il quadro sonoro, conferendo alla struttura dei pezzi la perfezione e la razionalità che era mancata fino a quel momento. E poi… beh, poi ci sei tu. Dio solo sa quale terrificante magma sentimentale t’alligna nel didentro e nei neuroni, ma quel che è certo che, davvero, non lasci scampo a chi ti sta a sentire. Come fossi giunto ad una sintesi matura di tutte le istanze e le capacità che ti hanno spinto a prendere un microfono in mano, irrompi nei solchi di vinile del disco come un meteorite che attraversa l’atmosfera per schiantarsi addosso alla terra e fare danni.
Inutile dire che nel tour di supporto, con il feedback del pubblico a indemoniarti e un palco sul quale correre come un tarantolato, l’effetto possa sembrare anche quasi raddoppiato. Chi viene a vedervi dal vivo, in Australia e in Europa, resta scioccato dalla vostra dimostrazione di forza ferina. Gli AC/DC sono un gigante, ormai, inutile far finta di niente. Giusto un annetto e mezzo per rinforzare la fama ottenuta in Europa con Powerage e il granitico live If you want blood you’ve got it e siete pronti a colpire anche negli Stati Uniti. Highway to Hell ha quello che serve a sfondare da quelle parti: l’omonima title-track è, infatti, il singolo perfetto per fare breccia nel cuore dei ragazzi a stelle a strisce. La formula è semplice semplice. Un riff che è la quintessenza del rock’n’roll così come la comandano i padri fondatori del genere: sintetico, devastante. Capace di infiggersi nel cervello dopo un solo ascolto. Il drumming di Sua Percussività Phil Rudd che scandisce i quarti preparando il decollo. Tu che ti butti in pista come un panzer tedesco contro le fila nemiche. Poche linee essenziali di basso a stabilizzare il volo in quota e poi giusto il tempo di arrivare al ritornello, prima di far tremare il cielo dopo aver tolto il morso alla chitarra di Angus.
È il delirio collettivo. L’ellepì mette solide radici nelle charts americane e britanniche e il tour che ne segue, finalmente mondiale e da headliner, vi rende delle icone. Milioni di ragazzi nei due emisferi cominciano a cantare le vostre canzoni e le toppe con il vostro logo fanno la propria comparsa sui loro giubbetti di pelle o di jeans, a dimostrazione che non basta più semplicemente ascoltarvi, bisogna avervi addosso, come un segno di distinzione immediatamente riconoscibile. E di appartenenza. Sì, perché far parte della crew degli AC/DC è come essere membro di una tribù. Fiera, guerriera, mai civilizzabile.
Il 1979 se ne va, lasciando tutte le luci accese e un’autostrada spianata verso la gloria. E si sa: lasciare a un corridore di razza un tracciato dove può scatenarsi significa istigarlo a non fermarsi mai più. Peccato, però, che la vita non possa essere sempre un rettilineo. Dovresti saperlo, Bon! Tu che, quando t’eri buttato in questa avventura, avevi riacciuffato il controllo per un pelo più di una volta. Avresti dovuto ricordare che in pista ci sono le curve. Strette, larghe, talvolta addirittura a gomito. E di fronte alle curve anche il più esperto e temerario dei piloti dimostra un minimo di timore, scalando la marcia e abbandonando i trecento chilometri orari. Ma tu no, tu non ne vuoi sapere di rimpallare e cambiare assetto. Il tuo unico imperativo è spingere e spingere. Bruciare il resto dei concorrenti sfidando non solo le leggi del buonsenso, ma anche quelle della fisica.
E così, invece di concederti un meritato riposo e goderti dollari e fama, decidi che per festeggiare il tuo nuovo status di celebrità non c’è niente di meglio che trascinare il party oltre ogni limite, trasformandolo in una trance dionisiaca dalla quale non sai e non vuoi più uscire. È con questa legge nel cuore che vai a goderti i piaceri che Londra by night sa regalarti. Con te c’è un amico e compagno di stravizi, Alistair, che ti scarrozza per la città con la sua Renault 5. Un salto in quel pub, uno in quell’altro. E in quell’altro ancora. Giusto un altro triplo di quello buono, eh. Poi basta. O forse no, mi sa che un altro ci sta tutto. O due, magari? Hai in corpo una portaerei di whiskey quando finalmente ti convinci, o ti convincono?, a chiudere la serata e ad andare a schiacciare un pisolino. All’ombra del Big Ben, quel 19 febbraio del 1980, fa un freddo cane e finisce che, appena rimetti piede in macchina e il tepore del riscaldamento ti avvolge, crolli come un sacco di patate sul sedile di dietro.
Arrivato dalle parti di casa sua, Alistair prova a svegliarti, ma niente, sei più immobile e pesante di una piramide egizia. Niente di strano, d’altronde: non sarebbe la prima volta che ti capita di sprofondare in un sonno alcolico dentro una macchina. Ci prova una volta, due e tre (o almeno così racconta), a svegliarti, ma poi, stanco e provato anche lui, decide che puoi anche rimanere lì. E che domani potrai raccontare un’altra storia e l’ennesimo dopo sbronza. Ti butta una coperta addosso e va a nanna.
Passano una quindicina di ore. Fa sempre un freddo del diavolo.
Alistair, con gli evidenti segni della notte brava sul viso, torna a recuperarti. Ti vede e il primo pensiero è che stai ancora dormendo. Per un attimo pensa di lasciarti buttato là. Poi, invece, decide di svegliarti. Ci prova. Ma tu niente. Si accorge che il tuo viso e le tue mani sono gelidi e che non hai un colore per niente bello. Allora, preoccupato, comincia a chiamarti, strattonarti: “Bon, Bon!”. Ti gira e si accorge che hai rimesso sul fondo posteriore dell’abitacolo. E che stai male, non respiri quasi più. Corre all’ospedale di King’s College, ma quando arriva non c’è niente da fare. Il referto ufficiale parlerà di morte causata da “intossicazione acuta da alcool”, anche se la vicenda rimane tutt’oggi piena di punti oscuri. Come oscura, rimane la sorte di alcune canzoni sulle quali, pare, stavi lavorando poco prima di morire. Quel che è certo, invece, è che la tua corsa finisce qui, a neanche 34 anni.
Gli AC/DC dopo la tua morte rischiano per qualche tempo di sciogliersi. Poi, anche per onorare nel migliore dei modi il tuo spirito e il tuo lavoro, decidono di andare avanti e incrociano il loro destino con Brian Johnson. Con l’uscita di Back in Black arriva la gloria vera, assoluta, quella alla quale avresti dovuto assolutamente partecipare, visto che la plasmazione estetica del gruppo è stata soprattutto opera tua. L’ellepì trasforma i ragazzi in una leggenda planetaria che ancora oggi fa impazzire milioni di fan di tre generazioni e sembra destinata non finire mai. Peccato non ci sia anche tu a goderti tutto questo! Ma forse tu non ci pensi, non ci hai mai pensato. Dall’alto della tua nuvola (o dal basso della tua fiamma?!), non ti crucci del fatto che i tuoi giovani compagni di viaggio siano arrivati dove sono ora. Quel che importava era crearli, gli AC/DC, e far vedere al mondo come si fa, partendo dalla lontana Australia degli anni Settanta, a scavalcare cento barriere di luoghi ed opinioni ed arrivare al top senza compromessi. Più che il milionesimo epitaffio, dunque, vale la pena ricordare le parole con le quali tu stesso, centinaia di volte e sui palchi di tutto il mondo, hai cercato di spiegare a noi poveri mortali quel come:
Let there be light,
sound,
drums,
'n guitar,
Ah , Let there be rock.
Solo questo, nulla più.
Grazie, Bon.
(dedicato a Walter “Ottimotom” Cianciusi)
Nessun commento:
Posta un commento