Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, ediz. domenicale 3 ottobre 2010
I Black Mountain sembrano una band degli anni Settanta. Dovrebbe essere nulla di più che una constatazione e invece diventa, a seconda dei casi, un titolo di merito o un vizio d'origine. Come se l'aspetto decisivo fosse l'orizzonte in cui ci si colloca, invece che le traiettorie che si disegnano su quello sfondo. Come se l'arte fosse un problema di schieramento, anziché di risultati. Come se i codici espressivi del passato potessero essere assimilati ai mobili o ai vestiti o all'oggettistica: che una volta invecchiati si ritrovano a oscillare tra il culto degli appassionati del vintage e il rifiuto dei maniaci dell'ultima moda. Due varianti della stessa valutazione indiscriminata e a priori. Due varianti della stesso automatismo. Il riflesso condizionato al posto del giudizio specifico.
Canadesi di Vancouver - e dunque a un passo dalla Seattle del grunge - i Black Mountain hanno suonato qui in Italia la settimana scorsa, dove erano già venuti due anni fa, e sono apparsi sulla scena discografica da appena cinque anni. Da allora a oggi hanno pubblicato tre album. L'ultimo dei quali, Wilderness Heart, è uscito a metà settembre. Il primo era una sorta di anteprima. Il secondo una consacrazione. Il terzo una specie di sosta. Ascesa, zenit, atterraggio. Fasi diverse, ma non contraddittorie, dello stesso volo. Scorci differenti di uno stesso territorio, con un che di omogeneo e nulla di stucchevole. Composizioni lunghe e affascinanti, da Heart of Snow alla splendida Bright Lights, e brani assai più brevi, ma non meno riusciti, come Angel e Night Walks. Cadenze rilassanti e impennate grintose. Echi di sonorità già sentite (e già amate) in grandissime band come i Black Sabbath e i Led Zeppelin, i Jefferson Airplane e i Pink Floyd. Echi raccolti nell'abisso in cui si erano adagiati a suo tempo, fin quasi a spegnersi, e riportati a nuova vita. I figli assomigliano ai genitori. I figli non sono i loro genitori.
Gli Anni Settanta - ma in realtà sarebbe più giusto parlare di quella straordinaria e irripetibile stagione che si sviluppò tra il 1965 e il 1975, a partire dai Beatles che andavano al di là delle semplici canzoni e fino all'implosione da autocompiacimento che portò all'avvento del punk - come uno stato d'animo da ritrovare dentro di sé, piuttosto che come un tesoro perduto da saccheggiare. E infatti, guarda caso, il chitarrista Stephen McBean si richiama proprio al punk, che nella sua reazione brutale contro il dilagare delle superstar non faceva altro, in fondo, che riaffermare le ragioni dell'ispirazione contro quelle del calcolo. Apparentemente poneva un problema di stile, celebrando la sana rozzezza dei brani da tre accordi; in realtà si riprendeva in un sol colpo quello che rimane il requisito fondamentale del rock, e che il business aveva sottratto un po' per volta fino ad annullarlo: una totale libertà creativa, ed esistenziale, e politica. Punk in senso lato, quello richiamato da McBean. Non il punk originario "made in England" dei Sex Pistols o dei Clash, ma la sua attualizzazione che va sotto il nome di hardcore.
«Voleva dire - sottolinea McBean - un modo personale di realizzarsi: restare underground, esprimere le potenzialità e fare le cose a modo proprio. Oggi, anche se ormai non suono più punk, sono rimasto punk. È qualcosa che non puoi scrollarti di dosso. Se ti entra nelle ossa te lo porti dentro a vita.» Il batterista Josh Wells chiude il cerchio, riconducendo la musica a un approccio più generale.
Affrancarsi dalle pressioni dell'industria dello spettacolo come riflesso di una ritrovata libertà interiore: «Non siamo una band "retrò". Penso che la nostra musica sia attuale, non bloccata in un'altra epoca, ma che piuttosto abbia a che vedere con lo spirito di un periodo più idealista. Penso che talvolta sia difficile vedere un futuro per gli esseri umani. Sembra sempre che il nostro peggior nemico siamo noi stessi. La musica può essere un modo di esorcizzare questo terrore apocalittico e di superarlo. Non penso che la vita sia senza speranza».
Affrancarsi dalle pressioni dell'industria dello spettacolo come riflesso di una ritrovata libertà interiore: «Non siamo una band "retrò". Penso che la nostra musica sia attuale, non bloccata in un'altra epoca, ma che piuttosto abbia a che vedere con lo spirito di un periodo più idealista. Penso che talvolta sia difficile vedere un futuro per gli esseri umani. Sembra sempre che il nostro peggior nemico siamo noi stessi. La musica può essere un modo di esorcizzare questo terrore apocalittico e di superarlo. Non penso che la vita sia senza speranza».
Così, quando lo stesso Wells definisce "pop" il nuovo album, è chiaro che la definizione non ha nulla a che spartire col significato corrente, che ne fa una categoria merceologica prima ancora che artistica. Nell'ipermercato dell'intrattenimento di massa "pop" contrassegna il reparto più vasto e affollato. L'etichetta che richiama il pubblico di minori pretese: quello che vuole emozionarsi, ma senza riconsiderare il senso e la direzione della propria esistenza; quello che vuole essere informato, ma senza mettere in discussione quello che sa, o che crede di sapere, su se stesso e sul mondo. C'è la birra analcolica, ci sono le lasagne e le torte dietetiche. C'è l'arte, si fa per dire, a scartamento ridotto. Il pop. I best seller. Le fiction tv.
Wilderness Heart è sicuramente meno impegnativo, rispetto ai due lavori che lo hanno preceduto, ma non significa affatto che sia meno sincero. Come ha scritto il recensore dell'edizione statunitense di Rolling Stone, Jon Dolan, che pure esordisce con un incomprensibile «i Black Mountain sono un po' hobbit e un po' orchetti» (a ulteriore dimostrazione che Il Signore degli Anelli è finito anche nelle mani sbagliate, come tutto ciò che finisce in troppe mani), «è una visione di incenso e di innocenza che è impossibile simulare così bene». È la stessa impressione che fa anche il video ufficiale di The Hair Song: un nitore che rinfranca, dopo innumerevoli clip che vivono (vivacchiano) solo di effetti speciali o che comunque sono intrise dal primo all'ultimo fotogramma di artifici di ogni genere. Non solo visivi ma immaginativi. Nel senso dell'immaginazione, e non dell'immagine.
I ragazzi e le ragazze di The Hair Song sembrano ancora capaci di cose semplici e meravigliose, come andarsene insieme in un bosco. Non a bordo del Suv da due tonnellate gentilmente prestato, o regalato, dal papi. A piedi. Respirando (sprigionando) la gioia della giovinezza che si inebria di se stessa. E una volta nel bosco, tra quegli scenari deliziosi di alberi e di pietre che tutti potremmo ritrovare facilmente, se solo lo volessimo, i ragazzi raggiungono la band che suona tra i ruderi di chissà quale costruzione. Un solo aggettivo? Naturale. L’antitesi stessa della società contemporanea.
Federico Zamboni
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