domenica 28 novembre 2010

Così il rock spiega che l'ordine delle cose è un punto di arrivo (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 28 novembre 2010
Le parole del blues. Dicono delle cose (E sto correndo alla stazione / a prendere il primo postale che vedo / Lo sento arrivare / Sto correndo alla stazione / a prendere il primo vecchio postale che vedo / Ho i blues per la Signorina Tal dei Tali / e la bambina ha i blues per me), ma ciò che le rende davvero incisive, coinvolgenti, significative, non è mica la storia in se stessa. È il modo di attraversarla. Nessuna giocata al risparmio - e se lo fai te ne pentirai amaramente. Nessuna pretesa di trovare delle giustificazioni universali e oggettive. Quello che accade, accade a te. I tuoi desideri mettono a repentaglio il tuo equilibrio. Non è vero quello che si dice di solito. Il blues non è la musica del diavolo. Il blues è la musica dei dèmoni. Delle passioni che afferrano l'uomo e lo consegnano al suo destino. Può darsi che finirà all'inferno, ma non ce l'avrà attirato chissà chi. Ci sarà arrivato sulle sue gambe. Di buon passo, almeno all'inizio.
Le parole di Keith Richards. Rovesciate in oltre 500 pagine di un'autobiografia che centra il bersaglio fin dal titolo. Life, vita (Feltrinelli, p. 524, € 24). Una miriade di eventi che riguardano una persona specifica, ma che allo stesso tempo rimandano alla forza inspiegabile che ci ha messi al mondo e che ci tiene in movimento. L'unica lezione possibile è questa, e guarda caso è la lezione fondamentale del rock: nell'esistenza dei più c'è uno spaventoso deficit di intensità e di significato. L'ordine non è un punto di partenza ma un punto di arrivo. E senza intensità l'ordine non è vero ordine - cioè vera armonia - ma proibizione. I ribelli rischiano di morire. I conformisti sono già morti.
La storia di Keith Richards non va necessariamente sottoscritta. Va ascoltata. Se si ama la musica degli Stones, e almeno un po' se ne conoscono le peripezie, la curiosità è naturale: quello che nelle interviste o negli articoli è emerso in modo frammentario, qui trova finalmente il suo sviluppo completo. È la versione di Keith, ovviamente, ma sviscerata al massimo grado. Utile non tanto a stabilire la verità ultima, che al massimo può riguardare i fatti e non certo i rapporti reciproci tra più persone, ma a sapere come è stata vissuta da uno dei suoi protagonisti. È l'equivalente di una lunghissima canzone, in un certo senso. O di un'interminabile presentazione di uno o più brani, durante un concerto.
Basta un piccolo sforzo di immaginazione, del resto. Leggere le pagine e immaginarsi la voce. Questo vecchio ragazzo di quasi 67 anni, che per quante ne ha passate ne dimostra assai di più, impegnato a vuotare il sacco. Cominciando esattamente dall'inizio. Dalla nascita a Dartford, nel Kent, il 18 dicembre 1943, e dall'infanzia negli anni durissimi del Dopoguerra. Dalle prime suggestioni musicali di matrice americana, attraverso le preferenze materne per Louis Armstrong, Duke Ellington e Billie Holiday, alla successiva scoperta "sistematica" per il blues e il rhythm and blues: «Vero R&B voglio dire (non quello schifo di Dinah Shore o Brook Benton), Jimmy Reed, Muddy Waters, Chuck, Howlin' Wolf, John Lee Hooker, tutti i bluesman di Chicago, roba veramente funky, meravigliosa. Bo Diddley, lui è un altro grande».
Una scuola, tutta intuitiva e per nulla concettuale, di risveglio all'energia primigenia. Quando la cultura diventa una gabbia, e la morale una prigione, il primo passo verso la libertà è tornare all'essenziale. Uno spartito ti impone di suonare quelle note e nessun'altra. Un bluesman, così come un vero artista folk, spera di aiutarti a comprendere quali note ti appartengono davvero. Life, vita.
Ma non metteteli su un piedistallo. E nemmeno Keith Richards, naturalmente. Dimostrereste solo di non averci capito nulla. L'ultima cosa che uno come lui può apprezzare sono quelli che vanno a rendergli omaggio come fan tremebondi e in solluchero, soggiogati dalla sua straordinaria capacità di infrangere qualsiasi regola e di cavarsela sempre. Cavarsela come uomo, essendo sopravvissuto a ogni sorta di abuso a cominciare da quelli con la droga. E cavarsela come personaggio pubblico, avendo non solo mantenuto ma persino ingrandito la sua fama di artista e i riconoscimenti per il suo ruolo all'interno dei Rolling Stones.
Con uno della sua tempra l'approccio deve essere un altro. L'unica possibile intesa, alla larga dalla completa sottomissione o dal totale rifiuto, è nel dargli atto che la sua vita è la sua. E nel fargli capire che la stessa identica cosa vale per voi. La vostra vita è la vostra. Se ne ha voglia siete disposti a offrirgli da bere. O ad accettare una sigaretta. Se ne ha voglia siete pronti a parlare un po'. O anche a starlo a sentire, se ha bisogno di sfogarsi. Ma sia chiaro, Keith: rispetto reciproco, oppure finisce ancora prima di cominciare. Lo sappiamo: ti piace girare armato. Non è una novità. Non è un problema. Siediti lo stesso. E quando ne hai abbastanza, bye bye. Riprenderemo un'altra volta, se è destino che debba andare così.
Purtroppo per lui, non gli capita spesso. La debolezza degli altri - la debolezza che rende insinceri, non tanto in quello che si dice ma in come ci si comporta, nei confronti non tanto degli altri quanto di se stessi - lo ha reso più schivo e anarcoide di quanto avrebbe potuto essere, forse, in altre circostanze. «Oscuro e vitale, dionisiaco ma essenziale - scrive Massimo Del Papa nel suo ottimo Happy (Meridiano Zero, 2010, p. 159, € 10) - Keith è certamente autodistruttivo ma mai vittimistico, un romantico che tiene a bada l'esistenzialismo e il nichilismo: non conosce l'apocalittica nausea del vivere, tutt'altro, divora ogni giorno con fame inesausta. Ben piantato nella mitologia che lo riguarda, ma anche in grado di scrivere e di cantare un brano autobiografico, e autoironico fin dal titolo, come Before They Make Me Run.
Me la spasso fin che posso, sono Keith il Terribile fino a che non mi faranno rigare dritto.»
Come recita l'adagio - fin troppo citato - "quando il saggio indica la luna lo sciocco guarda il dito". Ma in questo caso non c'è nessun saggio e nessuna luna. Solo quella mano segnata dal tempo e dagli eccessi, che non ha paura di nascondersi e dice tutto anche solo così. Dice: dateci dentro a costo di farvi male. Scoprite il vostro blues. Non rinnegatelo mai.
Federico Zamboni

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