Dal Secolo d'Italia di martedì 9 novembre 2010
«Un corridore deve correre con i sogni nel cuore, non con i soldi nel portafoglio».Così parlò Emil Zátopek, coerente fino in fondo, tanto da realizzare i propri, di sogni, per poi morire povero. Il prossimo 22 novembre saranno trascorsi dieci anni dalla scomparsa del mezzofondista e maratoneta ceco (Kopřivnice, ’22) universalmente noto come la «locomotiva umana».
L’avevano chiamato così per via di quel suo ansimare violento e quel correre sgraziato quanto ridicolo, con la testa piegata all’indietro e l’espressione del viso stravolta dalla sofferenza, che fece prima ridere e poi ammutolire il pubblico berlinese dei giochi interalleati del ’46. Pur avendo già un giro di vantaggio, Zátopek non smise di accelerare e quando tagliò il traguardo in solitudine le ottantamila persone che affollavano lo stadio Olimpico scattarono in piedi per lui. Niente a che vedere con la facilità di corsa esibita dai corridori africani, oggi veri e propri dominatori in questo sport. Alto e biondo com’era, Emil non si curava dell’eleganza del gesto atletico e dello stile da esibire per capitalizzare sponsor, voleva solo capire fino a che punto potesse spingersi. «Non ho abbastanza talento per correre e sorridere al tempo stesso», si giustificava. La sua carriera se l’era costruita sulla fatica, sulla ferrea autodisciplina con cui si sottoponeva a carichi di lavoro massacranti e sulla volontà di sfidare continuamente i propri limiti. Figlio di un operaio e operaio egli stesso in una fabbrica di scarpe, aveva iniziato a correre la sera tardi, di mattina presto o addirittura di notte, ogni qualvolta glielo permettevano i turni di lavoro. Un modello troppo ghiotto per le autorità comuniste, che lo avevano furbescamente adottato come strumento di propaganda al fine di dimostrare la superiorità delle democrazie popolari sulle molli democrazie occidentali. Salvo farlo spiare dalla polizia segreta, limitarne le trasferte e stravolgerne le dichiarazioni affinché rimanessero in linea con il suo ruolo di icona del regime. Ma senza riuscire a piegarlo. Zátopek non tollera che gli atleti sospettati di anticomunismo o in odor di dissidenza vengano esclusi dalle selezioni olimpiche e quando il compagno di squadra Sebastian Jungwirth non viene convocato egli stesso si sospende, costringendo il regime a fare marcia indietro e a richiamarli entrambi d’urgenza. Come il Forrest Gump cinematografico inizia a correre ininterrottamente per reazione a una situazione difficile – piantato dalla ragazza che ama – così il mite e gentile Zátopek risponde alla crisi in cui vede precipitare il proprio paese, sempre più trascinato nell’orbita sovietica: correndo.
Nel ’68, però, quando si infiamma la primavera di Praga, lui – che si è silenziosamente ritirato dalle scene ma è ancora una specie di eroe nazionale – firma il manifesto dell’eroe riformatore Alexander Dubček e si schiera in prima persona contro gli invasori sovietici. Una scelta che pagherà duramente con l’espulsione dall’esercito – in cui era stato arruolato durante la seconda guerra mondiale – e l’allontanamento dalla capitale per il ben più duro lavoro nelle miniere d’uranio.
Quale occasione migliore di quella offerta dal decennale dalla morte per rileggerne la storia nel bellissimo libro Correre (Adelphi, pp. 148, € 15,00) pubblicato lo scorso anno dallo scrittore francese Jean Echenoz? Il libro ne ripercorre la vicenda umana e sportiva, gli straordinari risultati ottenuti che ne hanno fatto, a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, un atleta insuperabile. Vincitore di quattro medaglie d’oro ai Giochi Olimpici – una a Londra nel ’48 e tre a Helsinki nel ’52 – si assicurò record su record ma soprattutto l’amore dei suoi connazionali. Tanto che, quando si ritrovò a lavorare come spazzino, al suo passaggio per le vie della capitale i praghesi lo acclamavano dalle finestre e lo incitavano mentre lui correva a brevi falcate dietro il camion. Senza alcun imbarazzo nel fare un lavoro umile, malgrado i suoi colleghi si offrissero per raccogliere la spazzatura al posto suo.
Il godibile libro di Echenoz – già vincitore nel ’99 di un premio Goncourt con il romanzo Me ne vado) – ha il merito di raccontare tutto questo senza incedere negli accenti epici, ma restituendo la storia per quello che è: l’impresa individuale di un uomo come tanti altri, con incredibili qualità e momenti di comprensibile debolezza, capace di sorprendenti atti d’eroismo come anche di inciampare in piccole viltà. Nelle conclusioni, infatti, Echenoz, senza per questo volerne ridimensionare il valore, ricorda anche come Emil, messo alle corde dal regime comunista, finisca per firmare un «documento di autocritica» in cui ammetteva di aver sbagliato.
Autodidatta, Zátopek era riuscito a imparare cinque lingue e negli anni settanta divenne traduttore e consulente del ministero dello sport, tornando finalmente a Praga, ma solo dopo il crollo definitivo del regime comunista riottenne la meritata popolarità. Del resto, non coltivando ambizioni, aveva fatto sua la filosofia dell’impegno fine a se stesso, di chi lotta senza aspettarsi niente. Il suo motto era: «la corsa come abitudine». Non per arrivare in fretta. «Se desideri vincere qualcosa puoi correre i cento metri – ripeteva Zátopek – ma se davvero vuoi goderti una vera esperienza corri una maratona».
La sua esperienza di vita finisce all’età di 68 anni il 22 novembre del 2000 a Praga, dopo una lunga malattia, accudito amorevolmente dalla moglie Dana, anch’essa sportiva e campionessa di lancio del giavellotto, oltre che firmataria, con lui, del manifesto di Dubček.
Roberto Alfatti Appetiti
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